Nella
religione cattolica c’è una bella espressione: la “morte preziosa”. La si
ritrova, a volte, nelle agiografie e nei processi di beatificazione dei santi,
a indicare quei trapassi che vengono ritenuti fonte di nuova e migliore vita
sia per il defunto che per i fedeli intorno a lui.
La
morte di Carlo Emilio Gadda, così come viene raccontata da Ludovica Ripa di
Meana in un libricino appena ristampato da Nottetempo, sembra agli antipodi
della “morte preziosa”. Risentimento, odio e smemorataggine appaiono i
sentimenti prevalenti nel lungo tramonto del famoso scrittore, che pure viene
definito dall’autrice del libro “un uomo da venerare”.
Nello
scorso anno, ho avuto la possibilità di stare vicino a un Amico, assolutamente
non famoso, che se ne è andato prematuramente. Il dolore fisico era grande, ma
il suo occhio non si è offuscato. In fondo a lui sembrava ci fosse qualcosa di
inattaccabile dalla decadenza fisica, per cui l’occhio – “finestra dell’anima”
– non ha smesso di scintillare. Parlava della Presenza e del suo Maestro come
sempre. Le sue ultime parole per me sono state: «È meraviglioso ricordare che
non sei il corpo».
“Se non sai morire intenzionalmente, non puoi
vivere intenzionalmente” – Jeanne de Salzmann.
Non
so perché Ripa di Meana trovasse Gadda morente “un uomo da venerare”. Temo però
che mettendo sugli altari la persona sbagliata, perdiamo tempo prezioso.
Più non si va, se pria non morde,
anime sante, il foco: intrate in esso,
ed al cantar di là non siate sorde.
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