giovedì 31 dicembre 2015

Congedo


La "sua gente" era venuta a dire addio al Maestro che aveva insegnato loro a dire "Io sono". Kathryn Hulme, sul funerale di Gurdjieff

Questo blog è stato dedicato ai due Maestri che mi hanno insegnato a dire "io sono"; che mi hanno mostrato come l'io sono possa essere sempre, ma ogni volta in modo diverso: una cosa è l'io sono da soli, un'altra in compagnia; da un lato c'è il suo sapore quando si è attivi, dall'altro quando si è inattivi. L'io sono è sempre nuovo e, sin dal primo momento, antico. L'io sono è il ricordo di sé: "Tutto più intenso". Lo si paga con azioni apparentemente non pertinenti, perfettamente disinteressate e altruiste: la terza linea di Lavoro. La vita deve alimentare l'io sono, affinché quest'ultimo nutra la vita. La vita, anche quando sembra cieca e senza respiro, può essere trasformata sino a diventare "io sono". I due Maestri che compongono l'indirizzo di questo blog mi hanno insegnato che ogni situazione può essere una declinazione dell'io sono, del BE, del verbo essere.

Il Lavoro deve sostenere la vita, affinché la vita possa sostenere il Lavoro. Jane Heap

Sul nostro stesso respiro camminiamo come su una corda tesa. Quando perdiamo la stabilità, riacciuffiamolo al più presto: è uno dei pochi fili d'Arianna di cui disponiamo.

Giunto in Occidente, Gurdjieff fondò il suo Istituto al Prieuré di Fontainebleau. Quest'estate, al Priorato di Fontanellato, non lontano da dove mi ero appena trasferito, è stato aperto "il più grande labirinto del mondo". Il suo centro coincide con l'uscita: una piramide di mattoni. Di fronte a un labirinto ("Un'architettura concepita affinché l'uomo si perda", disse Borges) l'unica domanda sensata è: come se ne esce? Lo scopo di questo blog è stato cercare di dare più forza all'unica via di fuga che io conosca.

Una sola cosa è certa, tutto il resto è menzogna. Omar Khayyam

«Quel dolce pome che per tanti rami
cercando va la cura de’ mortali,
oggi porrà in pace le tue fami.»

Virgilio inverso me queste cotali 
parole usò; e mai non furo strenne 
che fosser di piacere a queste iguali.

Tanto voler sopra voler mi venne 
de l’esser sù, ch’ad ogne passo poi 
al volo mi sentia crescer le penne.

Come la scala tutta sotto noi 
fu corsa e fummo in su ‘l grado superno, 
in me ficcò Virgilio li occhi suoi,

e disse: «Il temporal foco e l’etterno 
veduto hai, figlio; e se’ venuto in parte 
dov’io per me più oltre non discerno.

Tratto t’ho qui con ingegno e con arte; 
lo tuo piacere omai prendi per duce; 
fuor se’ de l’erte vie, fuor se’ de l’arte.

Vedi lo sol che ’n fronte ti riluce; 
vedi l’erbette, i fiori e li arbuscelli 
che qui la terra sol da sé produce.

Mentre che vegnan lieti li occhi belli
che, lagrimando, a te venir mi fenno,
seder ti puoi e puoi andar tra elli.

Non aspettar mio dir più né mio cenno; 
libero, dritto e sano è tuo arbitrio, 
e fallo fora non fare a suo senno: 

per ch’io te sovra te corono e mitrio».

Nessun commento:

Posta un commento