venerdì 27 febbraio 2015

Camminare



Quando camminiamo abbiamo una grande opportunità: dirigerci verso il presente.

Le vie per arrivarci sono tante: eccone alcune che per me hanno resistito alla prova del tempo.

Specialista in questo campo è il grande Thich Nhat Hahn. Da lui si impara che bisogna camminare in silenzio e, se proprio c'è qualcosa da dire, ci si ferma e si parla.

Thich Nhat Hahn insegna ad associare il respiro ai passi: a esempio, un'inspirazione tre passi, un'espirazione altri tre passi. Il ritmo può variare: l'espirazione può avere un passo in più (sempre per fare un esempio).

"Fa' che la divina presenza sia la tua destinazione"
Al-Ghazali

Nella Quarta Via si apprende come ancorare le pratiche della consapevolezza camminata a punti precisi: a esempio, fino a quell'angolo, fare attenzione ai suoni; fino a quell'albero, alle sensazioni tattili del vento; fino a quel negozio, sentire "Io sono" ecc. Gli sforzi della Quarta Via sono sempre organizzati e precisi.

"Segui l'antico Tao: muoviti con il presente"
Lao Tzu

Castaneda, per bocca di Don Juan, ha detto una cosa interessante: quando si cammina, bisogna avere le mani libere. Se si hanno oggetti da portare, è opportuno fare ricorso a uno zaino.

Tempo fa, lessi in un libro che non sono più riuscito a trovare la descrizione di una camminata detta "Camminata Milano", perché secondo l'autrice (un'orientale) era elegante come quella città. Consisteva nel tendere leggermente più del necessario la parte posteriore del ginocchio e del polpaccio, a ogni passo. La uso spesso e devo dire che funziona.

Più non si va se pria non morde,
anime sante, il foco: intrate in esso,
ed al cantar di là non siate sorde.



giovedì 26 febbraio 2015

Guardare l'arte con arte 2: Musei Civici di Pavia



Dove le pieghe del cielo si uniscono, c’è un gancio d’oro. Sotto, gli uomini incontrano il divino. Ma gli uomini che incontrano il divino sono due sposi che si stanno guardando negli occhi: così facendo sentono intensamente il momento e scolpiscono l'uno nell'altra una rupe da cui alzarsi in volo. Quel gancio in cielo indica che gli sposi hanno un appiglio per sollevarsi: nell'amore trovano una via tra le stelle, possiedono quella giusta temperatura del cuore che permette la fusione della terra. Gli sposi si perdono e si trovano negli occhi, si accendono l'uno nell'altra a intermittenza: hanno un'altalena appesa in cielo (Vincenzo Foppa).


Quello che tra le mani di Gesù è un semplice filo, quando tocca l’uomo si trasforma in ghirlanda di rose. Andando oltre, raggiunge il bastone da passeggio e lo fa sbocciare: il nostro cammino fiorisce, procediamo nel mondo legati per un filo al cielo. Dei filosofi antichi si diceva: "Sono come una catena di Hermes che pende verso gli uomini: rendono chiaro ciò che è oscuro". Questa corda gettata a noi, questo salvagente che dalla terra ci innalza al cielo, non è tanto una catena che offre chiarezza, quanto uno stelo che effonde bellezza e profumo. Il divino è la radice, noi il suo fiore (Giuseppe Antonio Pianca).



Io sono il sole e vado oltre me stesso: di questo esulto. Intorno a ognuno è tracciato un cerchio che lo incatena: la mia letizia rompe la gabbia in più punti, facendo di me un essere libero e liberatore. Sorrido appena, perché se uscissi troppo, non avrei più nulla da dare. Quello che manifesto basta però a creare rosso calore sotto di me, confinando in alto la materia grezza. E le mie creature, i laboriosi uomini, le amo al punto di trasformarmi in loro specchio: perché nei modi più vari – dritti o serpentini – cerco di farli uscire dalla loro gabbia. 

Più non si va, se pria non morde,
anime sante, il foco: intrate in esso,
ed al cantar di là non siate sorde.

mercoledì 25 febbraio 2015

Alzare gli occhi


Nella lingua greca la parola uomo deriva dal fatto che egli può guardare in alto.
Pietro di Damasco

Alzare gli occhi è ciò che ci salva.

Leggere cinque o dieci righe di giornale, scrivere o guardare il computer, poi improvvisamente alzare gli occhi: realizzare che il nostro presente è anche la stanza che ci circonda, i suoni dalla strada, eventualmente il muro spoglio che abbiamo di fronte.

Anche su un muro del genere può affiorare “l’isola che nessuna marea può sommergere”.

A ogni momento abbiamo la possibilità di alzare gli occhi, constatare che oltre i nostri “io” il mondo sta andando avanti come sempre e che probabilmente anche noi, tra qualche tempo, avremo la sua indifferenza verso ciò che ora ci sta mangiando il presente.

Coloro che guardano fisso alla Verità salgono in altoBhagavad Gita

È perché possiamo alzare gli occhi di tanto in tanto che la vita acquista senso, sfugge dall’asfissia dei diecimila “io” e diventa più reale.

In fondo, essere presenti è vivere per qualcosa di più grande di noi. Quando siamo presenti a ciò che mangiamo, ci facciamo da parte e solo il sapore è. Quando ci svegliamo alla stanza in cui ci troviamo, i piccoli “io” evaporano e uno spazio più grande ci fa visita.

Più non si va, se pria non morde,
anime sante, il foco: intrate in esso,
ed al cantar di là non siate sorde.

martedì 24 febbraio 2015

Sant'Ivo alla Sapienza



Sant’Ivo, più che una chiesa, è una cupola.

Una volta entrato, non puoi evitarla: ovunque vai, sei sotto di essa. Devi attraversare i muri, se vuoi avere un soffitto diverso.

In questo è simile al Pantheon: a uno a uno prendiamo il volo nella stessa mongolfiera.

La cosa bella è che entriamo tutti turisti: gente della più varia provenienza e anche di incerta consistenza. Poi però troviamo qualcosa che ci accomuna: la cupola. Abbiamo il medesimo silenzio, una parte simile in noi s’apre e s’allenta. Di tanti individui separati, diventiamo un solo corpo grazie alla stessa cupola. Il miracolo di S. Ivo è che trasforma degli sconosciuti in una comunità. In fondo, cos’altro è quest'ultima se non un gruppo di persone che cominciano a guardare nella stessa direzione?

Ognuno, a S. Ivo, ha uno scopo grande e bianco, con solo un tocco d’oro al centro. Allora – se il nostro sforzo è stato nella stessa direzione e abbiamo perseverato – uscendo è come se ci conoscessimo un po' gli uni gli altri. In modo simile alle nervature della cupola, che più salgono e più si avvicinano, anche noi ci siamo ritrovati in un unico punto: quello più luminoso. Fuori può sembrare un fuoco pirotecnico di fiamme e spirali: dentro, è uno stato molto semplice. 

Più non si va, se pria non morde,
anime sante, il foco: intrate in esso,
ed al cantar di là non siate sorde.

lunedì 23 febbraio 2015

I lunedì della poesia - La mano 2



Questa mano beve
          le tue parole
e
il mio ascolto
mette una nuova ricchezza
nel mondo

Tu dici
-L’arte di ricevere
le impressioni è la più importante che c’è-

Il poeta
    altro non è
che un ricevitore di immagini

La mia mano
     tutta la vita
l’avevo rincorsa
    così gustosa

Io sono
     quanto avanza da essa

Più non si va, se pria non morde,
anime sante, il foco: intrate in esso,
ed al cantar di là non siate sorde.

domenica 22 febbraio 2015

La morte preziosa




Nella religione cattolica c’è una bella espressione: la “morte preziosa”. La si ritrova, a volte, nelle agiografie e nei processi di beatificazione dei santi, a indicare quei trapassi che vengono ritenuti fonte di nuova e migliore vita sia per il defunto che per i fedeli intorno a lui.

La morte di Carlo Emilio Gadda, così come viene raccontata da Ludovica Ripa di Meana in un libricino appena ristampato da Nottetempo, sembra agli antipodi della “morte preziosa”. Risentimento, odio e smemorataggine appaiono i sentimenti prevalenti nel lungo tramonto del famoso scrittore, che pure viene definito dall’autrice del libro “un uomo da venerare”.

Nello scorso anno, ho avuto la possibilità di stare vicino a un Amico, assolutamente non famoso, che se ne è andato prematuramente. Il dolore fisico era grande, ma il suo occhio non si è offuscato. In fondo a lui sembrava ci fosse qualcosa di inattaccabile dalla decadenza fisica, per cui l’occhio – “finestra dell’anima” – non ha smesso di scintillare. Parlava della Presenza e del suo Maestro come sempre. Le sue ultime parole per me sono state: «È meraviglioso ricordare che non sei il corpo».

Se non sai morire intenzionalmente, non puoi vivere intenzionalmente” – Jeanne de Salzmann.

Non so perché Ripa di Meana trovasse Gadda morente “un uomo da venerare”. Temo però che mettendo sugli altari la persona sbagliata, perdiamo tempo prezioso.

Più non si va, se pria non morde,
anime sante, il foco: intrate in esso,
ed al cantar di là non siate sorde. 

venerdì 20 febbraio 2015

Festina Lente


Capita spesso di vedere statue o dipinti di due contendenti, uno dei quali è sereno, l’altro agitato. A esempio, dove lavoro c’è una statua quattrocentesca di S. Michele Arcangelo che schiaccia il demonio: quest’ultimo è agitato, mentre S. Michele è imperturbabile.

La serenità non dipende dalla vittoria nella contesa: Apollo non riesce a conquistare Dafne, nondimeno nel capolavoro della Galleria Borghese appare sereno (al contrario di Dafne). La serenità, o distacco, individua i centri superiori nell'uomo; l'agitazione, o identificazione, i centri inferiori.

Al Museo Archeologico Nazionale di Napoli c'è la statua antica di un eros prigioniero di un delfino. Quest’ultimo lo sta stritolando, ma Eros lo abbraccia, e per questo il suo viso esprime serenità. L’accettazione sconfigge sempre il sé inferiore e tiene puliti i centri superiori. 



C’è un’esortazione che Gurdjieff faceva spesso ai suoi studenti e che mi ha creato non poche difficoltà: lavorare velocemente. Magari si complimentava per il buon lavoro svolto, però chiedeva di rifarlo impiegando la metà del tempo. Diceva anche che muovendosi troppo lentamente, le “Influenze C” diventavano “Influenze B”.

A lungo questo consiglio gurdjieffiano è stato per me un punto interrogativo, perché lavorare velocemente non mi produceva alcuno stato.

Finalmente, in un testo minore della Quarta Via penso di aver trovato la chiave per capire dove volesse arrivare Gurdjieff. Si tratta di una precisazione che nessun altro ha riportato, eppure è decisiva.

Dobbiamo essere veloci, veloci. Ma quando si fa in fretta si fa rumore e allora [Gurdjieff] ti dice: «Bisogna lavorare in silenzio». Ho sentito per me l’impossibilità di essere sia veloce sia silenziosa, ma in qualche modo in quel momento mi sembrava di diventarne molto più capace del solito.” (Rina Hands, Il diario di Madame Egout Pour Sweet con il sig. Gurdjieff a Parigi, 1948-1949)

Introdurre silenzio nella velocità è come trovare serenità nelle avversità. Affinché la nostra velocità sia silenziosa, dobbiamo essere concentrati; senza fare attenzione, la velocità produce meccanicamente rumore, così come le avversità producono automaticamente "io" negativi. Siamo di fronte a un altro esempio di feconda congiunzione degli opposti. Cercare di mettere in pratica questo consiglio gurdjieffiano è come realizzare il famoso detto Zen camminare senza piedi e volare senza ali.

I Latini dicevano Festina Lente, affrettati con lentezza. Lente e lento vengono da lenire: rendere molle, far arrendere. Se mi affretto con morbidezza, se mi ricordo di passare sopra le cose senza "pesare", ho la possibilità di fare meno rumore. 

Più non si va, se pria non morde,
anime sante, il foco: intrate in esso,
ed al cantar di là non siate sorde.


giovedì 19 febbraio 2015

Linee serpentine, linee rettilinee



Roma è piena di acque.

Acque animali, vegetali, mercuriali, solari. Acque che escono da delfini, da pigne, da Mercuri, da dischi solari. A Piazza di Spagna c’è un esempio di fontana solare. Un sole antropomorfo tiene gli occhi rovesciati all’indietro e l’acqua gli sale alla bocca. I suoi raggi sono serpentini e rettilinei, come due diversi modi di arrivare al mondo. Uno diretto, l’altro a zigzag; uno subitaneo, l’altro bisognoso di tempo. Sembra che questa scultura ci stia dicendo che due sono gli influssi celesti: il colpo di spada diritto al cuore e l’accompagnamento mano nella mano. Oggi siamo incisi, ma domani riceviamo una carezza.

Con gli occhi fissi al cielo, quasi inebriato, questo sole non cessa di dare acqua. È sempre ricolmo. Sembra che il cielo stia attingendo acqua da lui come da un pozzo. L’attenzione rivolta in alto gli deforma i tratti. Forse sta guardando la luna. Forse la ama. Per questo l'acqua sale in lui, come le maree dell’oceano.

Anche in me c’è una forza che preme ogni ora, strepitosa di immagini e sensazioni. Il segreto per dare costantemente è trovare una maniglia in alto, restarvi agganciati. La vera da pozzo sopra la nostra testa è il sole o la luna? Oppure il cielo, lo spazio vuoto tra di essi?

Più non si va, se pria non morde,
anime sante, il foco: intrate in esso,
ed al cantar di là non siate sorde.

mercoledì 18 febbraio 2015

La valle dei platani



C’è, nella Villa Borghese di Roma, un posto bello almeno quanto l’omonima Galleria? Sì, la valle dei platani: otto magnifici Platanus Orientalis che proprio in questi giorni sono più o meno alla loro quattrocentesima gemmazione.

Chi li piantò fu Scipione Borghese, il più impresentabile dei cardinali, colui che creò la Villa e la Galleria Borghese ricorrendo a furti, minacce e sequestri di persona. E piantò questi platani lungo una sola fila, in fondo a una valletta. Oggi quella striscia di alberi è tutto ciò che resta della flora originale.

Più volte, in passato, ho letto concetti come “linee energetiche della terra”, “meridiani di forza”, "linee sincroniche" ecc., a cui sarebbero sensibili animali e piante. I testi da me consultati riportavano esempi da tutto il mondo, ma il caso eclatante di Villa Borghese, sotto gli occhi dei romani da generazioni, non l’ho mai trovato.

I platani sono giustamente considerati monumentali: ci vogliono almeno tre uomini per abbracciarli.

Non a caso parlo di abbracciare, perché è bello farlo con gli alberi. Ogni abbraccio richiede tenerezza e pazienza, tanto più se si tratta di vegliardi pluricentenari.

Un albero è pieno di silenzio. Se lo vogliamo, si prende tutti i nostri pensieri e preoccupazioni, offrendo in cambio qualcosa di buio e misterioso. Per accoglierlo, il cuore si deve aprire. 

In tanti parlano di cavalcare la tigre o le onde: in modo altrettanto emozionante si può cavalcare un albero di quattrocento anni, se lo si abbraccia a lungo. Nulla di nuovo: è come l'esperienza che facciamo nelle chiese, nei templi e nelle sale di meditazione, ma un po' diversa. Chi ci fa compagnia in questo caso non è un nostro pari, ma un Maestro: molto venerabile e assai antico.

Più non si va, se pria non morde,
anime sante, il foco: intrate in esso,
ed al cantar di là non siate sorde.

martedì 17 febbraio 2015

La Scala Santa


Il mio amico Lee Van Laer, che ha ispirato questo blog, è un originale esploratore delle idee della Quarta Via. Recentemente mi ha scritto che tutto il Lavoro che facciamo in questa vita serve solo a prepararci a soffrire ancora di più in una vita futura. Non ricordo di aver letto questa idea nel Sistema, ma sembra coerente con quanto diceva Ouspensky, ovvero che se la sofferenza non esistesse, bisognerebbe inventarla: senza di essa non potremmo ricordare noi stessi nel modo giusto. Secondo questo principio, più soffriamo, più aumentano le possibilità di creare un’anima.

Una singolare applicazione di queste idee mi sembra la Scala Santa di S. Giovanni a Roma. Ovviamente è un’applicazione in piccola scala, se mi si passa il gioco di parole. Da secoli, la gente sale in ginocchio la Scala Santa di Roma, fermandosi su ogni gradino a pregare. L’antichissimo rito è palesemente basato sull’idea della trasformazione della sofferenza (buona parte del cristianesimo, di fatto, sembra consistere nel precetto gurdjieffiano “Fa’ quel che a ciò non piace”).

Nella Scala Santa più sali e più soffri, come direbbe il mio amico americano. Più sali e più devi alzare gli occhi per tenere l’attenzione sul Gesù della parete di fondo. Salendo, c’è più luce. Vedi meglio la cupola col suo lanternino, che a sera è un vertiginoso buco nero. A sera, senti anche la porta chiudersi alle tue spalle: puoi solo continuare a salire, reggendoti sulla tua concentrazione. Il dolore aumenta di gradino in gradino, ma anche la forza di volontà. 

Più ascendiamo, più ci avviciniamo alla luce e più c’è sofferenza fisica. Un’attenzione salda diventa quanto mai necessaria per non lasciare che la sofferenza si trasformi in “io” meccanici (di lamento, impazienza, fretta ecc.). E l’attenzione sostenuta è ciò che ci porta più vicini a quello che il Sistema chiama Centro Emozionale Superiore.

Dopo, c’è il Sancta Sanctorum; dopo ancora, si ridiscende al mondo. Già sui primi gradini, dalle finestre si rivede il traffico della città. E allora capisci: ogni discesa serve solo a risalire.

Più non si va, se pria non morde,
anime sante, il foco: intrate in esso,
ed al cantar di là non siate sorde.


lunedì 16 febbraio 2015

I lunedì della poesia: due sonetti dell'angelo


I
Un angelo si è inginocchiato
Davanti a te per darti questo attrito
Un angelo che è stato definito
"Il servitore più grande mai nato"

È facile pensare a un angelo
Quando si realizzano i desideri
Finalmente sei senza pensieri
Alzi un dito e tocchi il cielo

Che anche il dolore sia un dono amorevole
Ciò che occorre alla tua evoluzione 
Affinché tu sia più consapevole 

È dura, incomoda realizzazione
Non hai più un nascondiglio confortevole
Solo cosciente, chiara accettazione


II
Quando l’angelo parla, il tuo ascolto
aumenta la ricchezza del mondo
grazie a un'arte antica e senza fondo
Unirsi ai suoni, esserne disciolto

Poesia è semplicemente
dove stanno le mani in quel momento
Un angelo, appena il frammento
di mondo cui un uomo è presente

Tutti siamo ciò che avanza dall’ora
felice e bianca che l’angelo colma
con voce che azzurra affiora

"Dì che sei mio alla terra ricolma
Chiariscilo col tuo Essere qui e ora"
Bisbiglia lui, e s’alza il cuore, si colma


Più non si va, se pria non morde,
anime sante, il foco: intrate in esso,
ed al cantar di là non siate sorde.

domenica 15 febbraio 2015

Dora Bruder


Scrive Pietro Citati che questo libro, secondo alcuni il capolavoro del Premio Nobel 2014 Patrick Modiano, “si muove nel vuoto, si agita nel vuoto, attraversa il vuoto, interroga il vuoto, viene deluso dal vuoto”. C’è da fare un’aggiunta: viene anche dal vuoto.

L’io narrante non esiste se non come una serie di ruminazioni intorno a un’altra persona, della quale si sa pochissimo. “Nessuno ricorda più niente”, “Zona di vuoto e d’oblio” e “Non lo sapremo mai” sono espressioni ricorrenti. Eppure, su queste impotenze e oblii si regge un libro di 136 pagine.

"In fin dei conti, il sapere non è altro che del nulla versato nel vuoto." Gurdjieff

La vita di Dora Bruder è fatta di labili indizi; il romanzo Dora Bruder, di elucubrazioni su questi labili indizi; la vita del narratore, di note al margine di queste elucubrazioni. Spesso egli scrive: “Ho camminato negli stessi luoghi di X, quaranta anni prima”, “Sono andato a vedere cosa c’è oggi sullo stesso luogo” o “Provo a immaginare come camminava su questa strada Y nel 1942”. Inseguendo fantasmi, il narratore diventa un fantasma a sua volta: un mulinello di pensieri ossessivi intorno a ipotesi indimostrabili.

C’è un doppio annichilimento, in questo romanzo: degli ebrei parigini sotto l’occupazione nazista e del narratore che si consacra a ricostruirne la vita. Solo a pagina 50 siamo certi che l’io narrante è effettivamente Patrick Modiano, perché ci dice di avere scritto Viaggio di nozze: fino a quel momento, la voce narrante era un'ombra delle ombre.

Più avanti, quando ai fatti del ’42 vengono sovrapposte le vicissitudini con il padre e la polizia negli anni Sessanta, la prima persona sembra acquistare carne, muscoli e sangue: ma è una breve parentesi.

È come se tutto il testo fosse un esercizio di fantasia intorno al nulla. E quanto più il tentativo di dare forma all’informe viene frustrato, tanto più l’immaginazione si avvita su se stessa, ripercorrendo ossessivamente le stesse strade, fermandosi davanti agli stessi numeri civici e leggendo più volte le cronache meteorologiche di quei giorni.

Alla fine, quello che impressiona maggiormente del libro è la testimonianza sull’Olocausto: per quanto si conosca l’argomento, si resta sempre sgomenti come la prima volta. Attraverso il suo modo particolare di raccontare, Dora Bruder ci lascia con un senso doppio di vuoto.

Più non si va, se pria non morde,
anime sante, il foco: intrate in esso,
ed al cantar di là non siate sorde.

venerdì 13 febbraio 2015

Il silenzio



Hai sempre a disposizione una protezione completa: il silenzio.” Alfred Orage

Ho un Amico che quando una persona gli dice qualcosa che non condivide, semplicemente tace.

Questo vale anche se le parole sono calunniose o ingiuste nei suoi confronti. Per lui, l’unica autodifesa è l’autoricordo (il ricordo di sé). Certi silenzi sono già una risposta eloquente. E poi, questo tipo di risposta non è mai negativo: non impoverisce il momento, come invece potrebbero fare le parole dei diecimila "io".

Quando qualcuno lo accusò di essere rimasto inerte dinanzi al collasso di Rajneeshpuram, la città che aveva appena creato, Osho rispose semplicemente: Il mio silenzio era più importante delle vostre parole (citazione non letterale).

Nel Museo dove lavoro ci sono due statuine di una misconosciuta dea antica, Angerona. Era la dea romana del silenzio e, in quanto tale, raffigurata con un dito alla bocca. Essa non aveva un tempio suo, ma solo una statua all’interno del tempio di Voluptas, la dea del piacere figlia di Amore e Psiche. Questo accostamento tra silenzio e voluttà mi è sempre sembrato interessante. Un filosofo antico, Macrobio, scrisse:

Masurio aggiunge che la statua di questa dea si trova sull’altare di Volupia rappresentata con la bocca chiusa e sigillata, perché coloro che dissimulano i loro dolori e i loro motivi di ansietà giungono, grazie alla loro sopportazione, a grandissimo piacere.

Mutatis mutandis, la "non espressione della negatività", uno dei cardini della Quarta Via, esisteva anche nel mondo antico. Per i Romani, era addirittura fonte di voluttà.

Più non si va, se pria non morde,
anime sante, il foco: intrate in esso,
ed al cantar di là non siate sorde.

giovedì 12 febbraio 2015

Apollo, Dafne e... Ulisse



Chiunque amando insegua le gioie della forma fuggitiva, volge la mano alle fronde per cogliere frutti, ma raccoglie solo amarezze.

Questi versi del cardinale Maffeo Barberini si leggono (in latino) sotto la statua berniniana di Apollo e Dafne, alla Galleria Borghese
. Benché appartengano a una poesia scritta prima che la statua venisse scolpita, molti pensano che ne siano stati ispirati, e quindi ne rivelino il significato allegorico.

Proviamo però, come è prassi in questo blog, a vedere la statua attraverso gli insegnamenti della Quarta Via.


Chi sta "volgendo la mano" in questo caso non è un mortale che insegue piaceri terreni, ma un dio che scende da una ninfa. Dafne non è totalmente umana, ma nemmeno divina: quando la mano del dio la sfiora, urla di terrore e precipita in uno stato subumano, trasformandosi in vegetale. Il dio Apollo mantiene invece un’espressione serena.

Questo è il motivo per cui la gente nello stato ordinario non può avere coscienza, perché se la coscienza venisse all’improvviso, essa impazzirebbe. Ouspensky

È detto nel Lavoro che non esistono garanzie, non si ricevono gradi per la lunghezza del tempo in cui si è rimasti nel Lavoro: ogni giorno c’è un esame e si può sempre venire bocciati. Dafne, pur essendo un livello sopra l’uomo ordinario, non si dimostra pronta all’arrivo del dio.

Una chiave per decifrare l’arte antica è spesso nelle espressioni dei soggetti: ciò che è superiore mantiene un’espressione serena (Apollo), ciò che inferiore appare identificato con le emozioni (Dafne).

Per il Sistema, essere impreparati alla venuta del divino vuol dire non saper produrre gli "io" giusti in quel momento critico. O, il che è solo apparentemente diverso, non sapersi separare dagli "io" meccanici. Un altro modo di dire ciò è che la persona impreparata non ha fatto i pagamenti necessari. In questa statua, Dafne reagisce all'epifania del divino identificandosi con gli "io" istintivi (la paura), e quindi manca l'appuntamento. 

Per capire meglio Apollo e Dafne, prendiamo un caso analogo: Calipso e Ulisse. 

Quando la divina Calipso offre all'uomo Ulisse l'immortalità nel paradiso di Ogigia, Ulisse rifiuta. Lui ricorda il suo scopo (Itaca) e non si identifica con la situazione del momento. Come Dafne, respinge il dio, ma a differenza della ninfa, non sprofonda in uno stato subumano. Tutta l'Odissea di Ulisse, il coraggio e gli sforzi fatti sino a quel momento, costituiscono il pagamento che gli dà la forza di Lavorare anche in un momento critico, laddove "Lavorare" vuol dire "mantenere il distacco". 

Il seguito è noto: i cieli si aprono ed Hermes ingiunge a Calipso di lasciar partire Ulisse verso Itaca. Non solo, ella l'aiuterà a costruire la zattera: perché quando con l'aiuto divino Ulisse supera gli ostacoli sul suo cammino, questi si trasformano negli indispensabili alleati.

La ninfa Dafne, che fino a quel momento aveva avuto un'esistenza comoda e senza attriti, entra in contatto col divino senza aver fatto pagamento, e impazzisce. 

Più non si va, se pria non morde,
anime sante, il foco: intrate in esso,
ed al cantar di là non siate sorde.

mercoledì 11 febbraio 2015

Venezia


Venezia è la città del supersforzo: realizzata nelle condizioni più difficili e senza economia di mezzi, viene dall’anima e fa appello all’anima. 

Diceva il Buddha: "Con la consapevolezza, con la padronanza di sé, il saggio si costruisce un'isola che nessun diluvio può sommergere". Perché costruire la propria casa sull'acqua? Per avere sempre difficoltà da trasformare in Presenza.

A Venezia, città dalla sopravvivenza sempre minacciata, vivere richiede uno sforzo in più. Nello slancio, la città va oltre se stessa e diventa Oriente senza essere a oriente, luogo di frontiera lontano dalle frontiere. Costruendo sull’acqua, Venezia si mette in una posizione limite e prova a non stare più da nessuna parte, sfuggendo al tempo e alla geografia. Per lunghe ore del giorno, la linea di demarcazione tra cielo e laguna è invisibile.

"Affrettati a coltivare la saggezza, fai di te stesso un’isola. Terso da macchie e impurità, sei libero dalla nascita e dalla morte." (Buddha)

A Venezia osserviamo la vita e la rappresentazione della vita. I veneziani mettono in scena i loro sogni, riproducono i momenti di rapinosa bellezza vissuti in Oriente, nel Nord Europa, a Firenze. Doppia è la vita dei veneziani, duplice la loro attenzione. Allo stesso modo, due volte vediamo i loro palazzi: in terra e riflessi sull'acqua. Ecco il supersforzo dei veneziani: vivere, sopravvivere e creare un'anima. 

È stato detto che l'arte presuppone il controllo delle passioni. In ogni suo palazzo, in tutti i suoi arabeschi, Venezia sembra che aggiunga: Sì, bisogna essere oltre le passioni, ma per creare un’anima bisogna vivere con passione.

Più non si va, se pria non morde,
anime sante, il foco: intrate in esso,
ed al cantar di là non siate sorde.


martedì 10 febbraio 2015

La Fontana dei Fiumi



A proposito dell’articolo sulla Fontana delle Tartarughe, un’amica mi ha fatto notare che i quattro efebi potrebbero anche interpretarsi come i quattro corpi del sistema gurdjieffiano: motorio, istintivo, emozionale e intellettuale.

Per divertimento, proviamo ad applicare la stessa chiave di lettura alla berniniana Fontana dei Quattro Fiumi. Le corrispondenze potrebbero non essere sempre esatte, ma in fondo stiamo solo giocando (tutte le citazioni sono da P.D. Ouspensky, La Quarta Via).

Anche qui abbiamo quattro statue che gettano acqua. Ipotizziamo che il Gange con il timone in mano sia il centro intellettuale; il Rio de la Plata con i tratti negroidi potrebbe essere il Re Nero, ovvero il centro istintivo; il Nilo con gli occhi bendati diventa il centro motorio (“Il centro motorio controlla anche i sogni, e non soltanto i sogni notturni, ma pure quelli in stato di veglia: i sogni a occhi aperti”); al Danubio non resta allora che fungere da centro emozionale.

Cominciamo a vedere che sotto ogni statua c’è un animale: un drago riottoso sotto il Gange-Centro Intellettuale


un delfino che bighellona placidamente sotto il Nilo-Centro Motorio


un fiero e sicuro di sé “coccodrillo” sotto il Rio de la Plata-Centro Istintivo



e un delfino utilizzato come unico inghiottitoio di tutta l’acqua prodotta dalla fontana, sotto il Danubio-Centro Emozionale.


Questi animali potrebbero rappresentare la parte più bassa di ogni centro, per così dire il loro fondamento.

L'animale del centro intellettuale si ribella al timone, ovvero al tentativo di stabilire una direzione definita; quello del centro motorio gironzola con indipendenza; quello del centro istintivo ha un atteggiamento bellicoso e guardingo; quello del centro emozionale... in realtà funge da porta d'ingresso al centro stesso. È una descrizione che in diversi punti ricalca il Sistema gurdjieffiano. 

Appena c’è più luce, le macchine funzionano meglio. La consapevolezza è la luce e le macchine sono le funzioni.

L’obelisco, si sa, rappresenta un raggio di luce. Cosa accade quando la consapevolezza-luce investe le quattro funzioni umane? Il Re Nero guarda al cielo terrorizzato e si protegge con una mano, come se si sentisse minacciato; il centro intellettuale tiene il timone, ovvero produce gli "io" giusti ("di Lavoro"); il centro motorio regge uno stemma papale, ma senza poterlo vedere;  il centro emozionale regge un altro stemma papale e invece lo guarda. Tutti i centri producono poi acqua, che va a finire alla base del centro emozionale.

Centro motorio e centro emozionale sono agli antipodi, ma stanno svolgendo lo stesso compito: reggere stemmi papali. Questi ultimi - posti in chiave d'arco e decorati con chiavi, triregno, colomba ecc. - potrebbero rappresentare la parte più elevata dell'uomo, ovvero i suoi centri superiori. 

"Tutta la cooperazione dei centri è un certo grado di risveglio. Cosa significa cadere addormentati? Sconnessione dei centri."

Nel buio del sonno, i centri sono sconnessi; nella luce della consapevolezza, cominciano a funzionare armoniosamente. Ciò viene indicato dal fatto che le due statue agli antipodi compiono lo stesso gesto di sostenere gli stemmi papali-centri superiori (anche se una non può vederli).

Tutte le parti della macchina collaborano, ma lo stato di presenza nasce attraverso il centro emozionale. Quest’ultimo è l’unica parte capace di andare oltre se stessa, per rivolgere lo sguardo verso i centri superiori. Il centro intellettuale, se pure regge il timone, da solo può poco, come suggerisce il drago indomabile sotto di lui (il quale anzi interferisce con il timone e cerca di intercettare l'acqua). L’azione con cui il centro emozionale attiva i centri superiori si chiama ricordo di sé. Perché, nel particolare momento in cui la consapevolezza-luce investe la macchina umana, tutta l’acqua finisce nel centro emozionale?

Il ricordare se stessi ha bisogno dell’opera di tre o addirittura quattro centri.”

Tutte le parti della macchina umana danno carburante al centro emozionale affinché possa sollevare gli occhi ai centri superiori: "L'energia richiesta per ricordare se stessi proviene dal corretto funzionamento dei centri."


***

La moderna critica d’arte esige che per spiegare un’opera d’arte si usino solo fonti a essa contemporanee o anteriori. Usare un Insegnamento contemporaneo non è ortodosso, ma talvolta la contaminazione apre scenari interessanti. In questo caso, la Fontana dei Quattro Fiumi e la Quarta Via sembrano avere qualcosa da dare l’una all’altra, e non solo per l’assonanza dei nomi.

"Nello studio di tutta la vostra vita, avete davanti a voi un intero museo."

Più non si va, se pria non morde,
anime sante, il foco: intrate in esso,
ed al cantar di là non siate sorde.


lunedì 9 febbraio 2015

I lunedì della poesia - La mano




Mentre tu parli e io ascolto,
sopra il tavolo nasce la mia mano.
Apparendo, rende tutto più reale: 
la rosa in vaso, l'acqua che bolle e anche
l'ascolto, secondo dopo secondo.

Sì, qualcosa sta avvenendo alle ore
diciannove e trentaquattro del cinque
di febbraio duemila e quindici:
la mia mano, rosa e salmodiante
sopra il tavolo della nostra cena.

Ecco tutto ciò che è da sapere:
tra un boccone e l'altro posa il cucchiaio,
tieni le mani libere: così
avvertirai meglio il sapore 
come una danza dentro al tuo corpo

- che lascerai dritto, franco e aperto
sull'orlo della sedia. 
                                        

Più non si va, se pria non morde,
anime sante, il foco: intrate in esso,
ed al cantar di là non siate sorde.

domenica 8 febbraio 2015

Le parole del ricordo di sé


Paese che vai, ricordo di sé che trovi.

In inglese, "ricordo di sé" è self-remembering, dal latino membrum, "membro, parte del corpo". L'idea implicita è quella di “rimettere insieme le membra”: nell'inconsapevolezza le parti ("i centri") della macchina umana sono sconnesse, grazie al self-remembering ritrovano unità. Il portoghese lembranca de si è affine. 

L’italiano ricordo di sé (equivalente allo spagnolo recuerdo de si) ha al centro ha il latino cor, "cuore". Siamo dunque di fronte a qualcosa che attiva il cuore, o perlomeno ne richiede l’uso. Italiani e spagnoli sono gli unici che quando ricordano, usano sempre il cuore.

Il francese rappel de soi contiene l’idea del fare appello, dell’invocazione o esortazione a se stessi, che può avvenire usando letteralmente parole, come "Sii" o "Appari".

Il tedesco selbst-erinnerung significa “andare dentro di sé”, “volgersi al proprio interno"; il croato samo-sjećanje, "percepire se stessi".

In russo abbiamo pomni sebia. Leggiamo cosa ne scrive Nicolas de Stjernvall, figlio di Gurdjieff: “L’espressione russa è quasi intraducibile, se non impiegando una perifrasi, ossia: «mantieniti sempre vigile, cosciente delle tue azioni e dei tuoi gesti, controlla le tue pulsioni e i tuoi centri interiori»”. Questa è probabilmente l'espressione usata in origine da Gurdjieff.

C’è più verità nella filologia che nella filosofia.” (Gurdjieff)

Quando si imbatté nel ricordo di sé, Ouspensky si rese conto di trovarsi "di fronte a qualcosa di interamente nuovo, che scienza e filosofia avevano fin ora trascurato". Ecco forse perché le versioni nelle varie lingue differiscono: mancando riferimenti, i primi traduttori del Sistema avranno fatto appello a ciò che vi sentivano di più vicino, attraverso le loro varie sensibilità (i loro diversi "tipi di corpo").

D'altra parte, il ricordo di sé è uno stato oltre le parole e dunque intraducibile. Cervantes disse che una traduzione è simile al retro di un arazzo: ma in questo caso, qual è il davanti? 


PS: Grazie a Lee Van Laer per aver fornito lo spunto a questo articolo.


Addendum 1
Addendum 2

Più non si va, se pria non morde,
anime sante, il foco: intrate in esso,
ed al cantar di là non siate sorde.

venerdì 6 febbraio 2015

Il concerto



A volte ti nascondi dietro un orecchio: come nei giorni in cui ci sono state prove e concerti nel museo in cui lavori. Allora ti piaceva passare in secondo piano e lasciare che una piccola parte di te – l’orecchio – prendesse tutto lo spazio.

Con gioia attendevi l’opportunità di diventare una cosa piccola piccola – un atomo – dietro il tuo orecchio. E se i suoni erano belli come quelle antiche melodie suonate da strumenti d'epoca, era più facile.

Proprio di fronte alla sala dei concerti, dall'altra parte della strada, c’è la tomba di un sant’uomo (il vostro “guardiaspalle”) con l’epitaffio Non coerceri maximo | contineri minimo, divinum est, che tradotto fa: “Non esser costretto da ciò ch'è più grande ed essere contenuto in ciò ch'è più piccolo: questo è divino” (ventuno parole italiane per sette latine). Era divertente come tutti sostenessero che queste parole fossero sulla tomba del santo, ma nessuno sembrasse sapere esattamente dove. A occhio nudo la scritta non si vedeva e chiedendo in giro, tutti cadevano dalla nuvole. Che fosse infinitamente grande e infinitamente piccola allo stesso tempo?

Certo era che quando ti facevi piccolo piccolo dentro l'orecchio, diventavi grande grande al tuo interno.

E c'era una stranezza: a quel punto i suoni non ti raggiungevano più, come se si fossero fermati all’esterno. In te – grazie all’intensa attenzione – si era formata una sorta di luminosa sfera in cui niente poteva entrare.

Era quella, in realtà, una delle 112 tecniche insegnate da Shiva a Parvati, magistralmente commentate da Osho in The Book of the Secrets. Tu stesso, tanti anni prima, avevi tradotto queste parole:

I suoni hanno qualcosa di peculiare: ovunque ci siano suoni, tu sei il centro. Tutti i suoni vengono a te da tutte le direzioni [...] ma non ti raggiungono mai. Esiste un punto in cui nessun suono può entrare: quel punto sei tu” (Osho).

Quando la musica cominciava, in quel museo diventavi anche tu un quadro e i suoni erano la tua cornice. Ascoltando a lungo, essi si trasformavano in una ghirlanda intorno al tuo collo. Non penetravano oltre la spalla, eppure ti levigavano sino a trasformarti in specchio.

Più non si va, se pria non morde,
anime sante, il foco: intrate in esso,
ed al cantar di là non siate sorde.