mercoledì 30 settembre 2015

Cuoio di buona qualità


Kenneth Walker scrive (Insegnamento di Gurdjieff): "Gran parte del nostro tempo nei primissimi stadi del lavoro era dedicata più a tentare di non fare qualcosa che facevamo abitualmente che di fare qualcosa di nuovo". Questo, perché era impossibile qualsiasi mutamento reale se prima non si imparava a risparmiare energia, la quale "veniva bruciata in attività inutili come identificazioni, parlare superfluo, tensione muscolare ed emozioni negative". Attraverso queste attività inconsapevoli andava perduto quel famoso "cuoio buono" che Gurdjieff aveva da offrire ("Ho del buon cuoio da vendere per chi desidera fabbricare scarpe").

Combattere con le nostre debolezze è l'essenza del lavoro su di sé. Proprio questa lotta dà l'energia che alimenta il nostro essere. Bennett

La domanda è: questa vigilanza contro le dissipazioni energetiche vale solo "nei primissimi stadi del lavoro"? No. Se non sempre, vale almeno per molto tempo. Prendiamo l'abitudine del parlare inutile: chi ce l'ha, non può sperare di avere cuoio buono. Essa è la principale difficoltà per molte persone, introducendosi in ogni cosa (Ouspensky). Persino Gurdjieff ogni tanto esclamava (Louise March): "Now, lost myself with all the talk" ("A furia di parlare, ho perso me stesso").

La necessità di risparmiare energia è così grande che gli esercizi in cui "non si fa qualcosa", per dirla con Walker, sono innumerevoli. Eccone alcuni: non parlare mentre si mangia, non esprimere emozioni negative, non fare piccoli movimenti inconsapevoli (mani tra i capelli, grattarsi il viso ecc.), evitare il parlare superfluo. Una volta, Ouspensky disse che il punto non era tanto acquisire nuova energia, quanto evitare di sprecarla. E molti di questi esercizi riguardavano il parlare, che fossero permanenti (come quelli appena elencati) o temporanei (usare solo il lei tra studenti; richiesto da Ouspensky a Londra). Sempre Ouspensky enunciò una regola aurea: "In ogni situazione, occorre usare quante meno parole possibile". E la moglie: "Non dare mai più informazioni di quelle che ti sono state chieste".

Che dire, invece, del "fare qualche cosa di nuovo"? Una è senz'altro questa: "A volte vi fermate, vi fermate dentro, e dite IO SONO ... Solo una cosa ricordo: IO SONO ... Continua a dire IO SONO e non cercare niente, solo ripetere le parole. A fine, forse qualcosa arrivare!" (Gurdjieff, da: Rina Hands).

Vien dietro a me, e lascia dir le genti: 
sta come torre ferma, che non crolla
già mai la cima per soffiar di venti.

martedì 29 settembre 2015

L'errore intenzionale


Nel libro Un nuovo modello dell'universo Ouspensky afferma che nei Racconti del pellegrino russo, "una delle gemme nascoste della letteratura russa", è inserito un probabile errore intenzionale: il pellegrino impara con troppa facilità e rapidità la pratica della "preghiera mentale". Perché Il Pellegrino russo sia stato scritto così, Ouspensky non lo dice, ma il concetto dell'errore intenzionale sarebbe stato ripreso anni dopo da Irmis B. Popoff"Coloro che sapevano", sono le sue parole, "avrebbero introdotto errori deliberati in opere altrimenti perfette" come dipinti, statue, architetture, riti religiosi ecc., affinché "scoprendoli non si possano più dare per scontate queste opere, ma occorra fermarsi per ponderare e riflettere, arrivando così alla comprensione di verità che altrimenti sarebbero sfuggite".

Sembra di ritrovarsi di fronte all'invito a verificare ogni cosa e reggersi sulle proprie gambe, proprio della Quarta Via. Gli studenti di questo cammino sono avvertiti: in ciò che stanno studiando e viene loro trasmesso, può esserci qualche "errore intenzionale" che costringe a fare sforzi ulteriori per assimilare al meglio l'Insegnamento.

A volte, quando sento parlare delle fasi lunari, mi sembra di trovarmi di fronte a qualcosa di simile. Capita di sentir dire, anche in circoli di Quarta Via, che quando la luna è piena occorre esercitare più vigilanza, perché in quei giorni le forze meccaniche diventerebbero più forti. In particolare, l'energia emozionale si farebbe più irrequieta. Ma nelle conferenze di Ouspensky recentemente tradotte in italiano, il Maestro russo dice più volte che l'influsso della luna è sempre lo stesso. A prescindere da quanto la illumini il sole, "la luna c'è sempre". A questo punto, ognuno è chiamato a verificare personalmente se l'idea tradizionale sulle fasi lunari contenga una verità, se sia un errore intenzionale, l'eco distorta di qualcos'altro oppure una semplice metafora.

Una cosa è certa: ricordare se stessi è sempre difficile, almeno su questo pianeta Terra.

Vien dietro a me, e lascia dir le genti: 
sta come torre ferma, che non crolla
già mai la cima per soffiar di venti.

lunedì 28 settembre 2015

I lunedì della poesia - Quadri 2


I coniugi Arnolfini
Ora il nostro matrimonio è completo.
L’artista ha aggiunto un terzo polo:
lui stesso, nello specchio centrale.
Finita l’opera,
il nostro amore resterà moltiplicato per tre,
con un nodo aureo non dato ai comuni sposi.
Quando ci baceremo,
lui sarà dietro gli specchi,
noi icone fuori dal tempo.
Già molto abbiamo appreso:
il dare e ricevere attraverso un solo punto,
la ricca geografia di due mani,
la storia che vi si accumula in pochi minuti.
Simile a un orefice,
egli ha tagliato per noi l’amore a tre facce:
due sposi, più un occhio che li fa Dei.

Ultima cena
Nella sala, in undici si agitano,
uno persino con un coltello.
Io, avvinto al sonno,
vedo il mondo dalle braccia del maestro,
non ho divisioni nei miei sensi.
Gli insegnamenti ultimi
e i rumori della sala sono uguagliati:
tutto scende sgranato dal grande petto,
battuto dai colpi del suo cuore.
Chi può avere pace,
senza un simile corpo a corpo?
Osservo il dramma dal lato rovescio,
quasi sotto il tavolo, dove gettiamo gli scarti.
Se mai racconterò questa sera,
parlerò del buio, la pulsazione,
la conoscenza giunta
attraverso ogni centimetro della mia pelle.

Il ratto di Ganimede
I passeggeri di carrozze
fanno l’effetto di gente senza destino, asservita.
Dalla strada vedi una successione di volti,
varianti d’una posa.
Il busto poco girato, gli occhi senza attrito.
Nessuno s’allunga
oltre la meccanica sedimentazione d’infanzia,
giovinezza, vecchiaia.

Vorrei dire all’aquila:
“Non impoverirmi,
lasciami trovare il cielo da solo,
passo dopo passo.
Se devo portare doni,
sia per la strada da me aperta”.

Eppure volo dentro al volo.
Chi mi prende alle spalle non può contenermi,
impossibile è rapirmi.
Il blu succede al rosso,
poi il bianco.
Sento dire “Bentornato”.

Vien dietro a me, e lascia dir le genti: 
sta come torre ferma, che non crolla
già mai la cima per soffiar di venti.

domenica 27 settembre 2015

Lelio Orsi - Il ratto di Ganimede


La fama di un artista è spesso questione di fortuna. Lelio Orsi fu un talentuoso pittore emiliano vissuto nel secolo XVI, ma poiché le sue opere sono in buona parte distrutte o danneggiate, è relativamente poco noto. Alla Galleria Estense di Modena, a esempio, vi sono i frammenti degli affreschi che dipinse nella rocca di Novellara: resti scarsi, ma di un grande vigore. I camerini da lui dipinti in questo castello non avevano probabilmente nulla da invidiare ad altri, più famosi perché giunti integri fino a noi. Se le scenette di diluvio attirano la nostra attenzione, il pezzo più mirabile è il frammento con il volo di Ganimede. Oggi queste opere si trovano a Modena perché, con decisione che definiremmo vandalica, nel 1773 il duca Francesco III ordinò che venissero staccate (sommariamente) e portate nel suo Palazzo, a ornamento della quadreria.

Sin dai tempi di Platone, il rapimento di Ganimede è considerato simbolo dell'ascesa dell'anima. In età moderna, il tema ha goduto di fortuna artistica: tra i pittori più famosi che l'hanno affrontato, Correggio, Rembrandt e Rubens. L'interpretazione di Orsi si distingue da tutti. Il giovane Ganimede vi appare stravolto, il corpo ruotato verso destra e la testa verso sinistra; una mano verso l'alto, l'altra verso il basso. Gli occhi sono chiusi.

Poco prima di morire, una mattina Ouspensky disse improvvisamente: "Bisogna fare tutto il possibile, poi invocare...". Non finì la frase, ma face un ampio gesto verso l'alto. Rodney Collin

Gli occhi chiusi di Ganimede riportano alla mente un precedente classico: l'arrivo di Odisseo a Itaca. Secondo il racconto omerico, poco prima che l'eroe coronasse i suoi sforzi tornando a casa, gli Dei versarono il sonno nelle sue palpebre, in modo che l'ultimo tratto del viaggio fosse indipendente dalla sua volontà. Trasportato dalla nave magica dei Feaci, Odisseo si sarebbe svegliato solo sulla spiaggia itacense.

L'idea sottesa a questo racconto mitico (e all'affresco dell'Orsi) è che i nostri sforzi possono arrivare solo fino a un certo punto, tutto il resto... fece un ampio gesto verso l'alto: è un fatto di grazia. Il risultato del nostro sforzo non è davvero nostro, non appartiene alla macchina umana: è qualcosa di più grande di noi.

Quando il vero aiuto arriva, è incommensurabile rispetto a qualunque cosa possiamo fare da soli. Rodney Collin

Dietro Zeus, occhieggia il sole. Di fatto, egli è il sole, e l'ascesa di Ganimede avviene verso quello che nel Raggio di Creazione di Gurdjieff è un gradino a noi superiore. In conclusione, non sfugga la componente erotica: non solo perché vediamo Ganimede dal basso, ma anche perché in alto vi sono due donne nude. Pertanto, questa ascesa al cielo non è priva di energia sessuale, anzi: il mito ci dice che quest'ultima ne fu la causa. 

Vien dietro a me, e lascia dir le genti: 
sta come torre ferma, che non crolla
già mai la cima per soffiar di venti.

venerdì 25 settembre 2015

Un Gurdjieff... à la Osho


È stato detto che Osho fu un maestro gurdjieffiano, persino un insegnante di Quarta Via sui generis. I motivi di ciò sono probabilmente il fatto che parlava spesso di Gurdjieff, esortava i suoi discepoli a praticare il ricordo di sé, li sottoponeva ad attrito e supersforzi, ricorreva all'esercizio dello stop e accettò che venissero praticate le danze di Gurdjieff nel suo ashram.

Per celia, elenco ora alcuni casi in cui Gurdjieff sembra un maestro... oshesco. 

Intervistato al primo sbarco in America, nel 1924, Gurdjieff dà la sua opinione su alcuni personaggi famosi dell'epoca: "Il Presidente Woodrow Wilson è un esempio di intellettuale astratto. Gli insegnerei a esprimersi attraverso il tam-tam". L'uomo politico William Jennings Bryan, proibizionista dell'alcool e anti-darwiniano, "dovrebbe assaporare vini profumati e darsi totalmente all'intossicazione del vino e della danza". L'intellettuale femminista Carrie Chapman Catt "alla mia scuola andrebbe sempre in giro avvolta in sete rosse, sensuali e provocanti," in modo che "la consapevolezza interiore di questa donna possa risvegliarsi, trasformandola in una femmina emotiva e istintiva, oltre che intellettuale" (P.B. Taylor, Real Worlds of G.I. Gurdjieff).

Nel 1925, intervistato da Margery Pickard, Orage affermò: "Gurdjieff fa danzare i suoi studenti in modo libero e abbandonato, come detta la loro anima: in tal modo, le parti sopite della loro personalità si scuotono e si ridestano".

In un'intervista pubblicata sul "New York Herald Tribune" il 28 gennaio 1931, la giornalista Isabel Rose chiese a Gurdjieff: "Lei sostiene che il libro che sta scrivendo contiene ogni aspetto della vita americana: anche la politica?". Risposta di Gurdjieff: "Parlo di tutto, tranne che della politica. La politica non mi interessa".

Sono parole e atteggiamenti frequenti in Osho, rari o rarissimi in Gurdjieff. Tutti e tre questi esempi vengono dai giornali: forse i giornalisti alterarono in modo sensazionalistico l'intervista, oppure gli intervistati vollero attirare l'attenzione forzando un po' la mano (non conosco altri casi in cui si parla di danze libere e abbandonate - un classico di Osho - all'Istituto per lo Sviluppo Armonico dell'Uomo).

L'episodio più bizzarro che accomuna i due Maestri, e allo stesso tempo ne porta alla luce le differenze, è però un altro: l'arresto negli Stati Uniti d'America.

Vien dietro a me, e lascia dir le genti: 
sta come torre ferma, che non crolla
già mai la cima per soffiar di venti.

giovedì 24 settembre 2015

Il principe Yuri Lubovedsky


Il principe Yuri Lubovedsky, in Incontri con uomini straordinari, è un personaggio dotato di grande intelligenza che persegue incessantemente lo scopo di risvegliarsi, spende per questo grandi cifre e non lesina gli sforzi. Tuttavia, ecco quello che si sente a dire a pag. 211 dello stesso libro:

"Per quarantacinque anni hai fatto degli sforzi, ti sei tormentato, hai faticato senza sosta, e neppure una sola volta hai potuto deciderti a lavorare in modo tale che il desiderio del tuo cervello diventasse quello del tuo cuore, non fosse che per qualche mese. Se tu ci fossi riuscito, non trascorreresti la tua vecchiaia nella solitudine in cui ti trovi in questo momento!".

Detto in altri termini: cuore e testa non cooperano nel Lavoro, quindi ti ritrovi solo. Ribaltando l'affermazione: se tu non fossi solo, cuore e testa coopererebbero. Si ritorna così a uno dei postulati della Quarta Via: questo cammino non si può fare da soli, la presenza di compagni di viaggio non è un optional, ma un requisito. Quando si trovano i compagni, il centro emozionale si attiva e la testa non è più sola con il suo sapere. 

"Un uomo solo non può evadere, ma venti forse sì. Cinquanta di nuovo no, sarebbero visti." Ouspensky

Diceva Maurice Nicoll che il linguaggio delle immagini è quello del centro emozionale: vedere una persona serena, o un paesaggio naturale, può toccare il centro emozionale più di tante parole. Allo stesso modo, vedere personificato il Lavoro in una persona più avanti di noi può darci il carburante emozionale per proseguire. Già Marco Aurelio, nel Primo Libro dei suoi Pensieri, scriveva quanto era importante "vedere con chiarezza, in un modello vivo" le virtù dell'animo umano.

Il personaggio del professor Skridlov, nello stesso libro Incontri, esemplifica l'importanza dell'esempio vivente di una persona che Lavora: "Dopo l'incontro [con Padre Giovanni], il mio mondo interiore e il mio mondo esteriore sono completamente cambiati ... a poco a poco, in me è apparso qualcosa che ha portato tutto me stesso alla convinzione assoluta che al di fuori delle agitazioni della vita esiste qualcos'altro che dovrebbe essere lo scopo e l'ideale di ogni essere umano. Questo altro soltanto può rendere l'uomo veramente felice".

Louise March paragonava Gurdjieff seduto in un bar a "un meteorite forte e impenetrabile, qualcosa caduto da un altro mondo": per lei, come per Charles Nott, stare semplicemente seduti vicino a lui, senza dire niente, equivaleva a ricevere una doccia di energia.

Per chiudere, come ieri, con le parole di Alfred Richard Orage: "Il tuo peggiore nemico è quello che ti dice cosa devi imparare da solo".

Vien dietro a me, e lascia dir le genti: 
sta come torre ferma, che non crolla
già mai la cima per soffiar di venti.

mercoledì 23 settembre 2015

"Qualunque cosa accada"


Nel suo primo, celebre incontro con l'undicenne Fritz Peters, Gurdjieff gli chiese di tagliare i prati del Prieuré tutti i giorni, "no matter what happens", "qualunque cosa accada". Dopo che il compito fu eseguito per mesi in mezzo a notevoli difficoltà, tra il soddisfatto Gurdjieff e Peters nacque un rapporto particolare, quasi di padre/figlio.

Quelle parole, "qualunque cosa accada", sono importanti. Stanno al cuore del Lavoro di qualsiasi studente di Quarta Via. Quando cominciamo un'ottava ascendente, per legge affiora subito la forza contraria. "Devi promettere che nulla potrà fermarti", esigé Gurdjieff da Peters. E la forza contraria giunge sempre in modo inatteso: nel caso in questione si trattò addirittura dell'incidente automobilistico di Gurdjieff, il giorno dopo. 

"La differenza tra un uomo ordinario e un uomo straordinario è nella persistenza dei loro scopi" (Gurdjieff, intervista a The New Republic, giugno 1929).

Nel libro I racconti di Belezebù a suo nipote, Gurdjieff descrive la statua di una sfinge con tronco di toro, zampe di leone, ali di aquila e volto e seno di ragazza. Dice l'insegnante di Quarta Via Beryl Pogson (The Very Next Thing) che di queste quattro parti allegoriche, la basilare è quella taurina, rappresentando la qualità "della perseveranza, dell'affidabilità e della stabilità, che sono la base di qualsiasi sviluppo di un uomo desto. Se una persona possiede queste qualità nella vita, può usarle anche nel Lavoro".

Sul perché Gurdjieff abbia scelto Belzebù come protagonista del suo libro, sono state fatte varie ipotesi. Una delle più interessanti è quella contenuta nel libro The People of the Secret, scritto dal giornalista Edward Campbell con lo pseudonimo di Ernest Scott: B'il Sabab significherebbe "uomo dotato di scopo" in arabo.

Se in qualsiasi momento non sai qual è il tuo scopo, grande o piccolo che sia, in Quarta Via si dice che non sei un Uomo, ma un "uomo" tra virgolette. Nel Lavoro, i primi scopi sono finalizzati ad arrestare gli sprechi di energia, quelli successivi a generarne quantità extra (Pogson, cit.). E come dice Maurice Nicoll, lo scopo non può mai divenire meccanico: è come costruire una barriera vicino al mare, va costantemente rinnovato. 

"Chi ha un obiettivo in mente fa in modo che tutto serva per raggiungerlo" (Orage): qualunque cosa accada.

Vien dietro a me, e lascia dir le genti: 
sta come torre ferma, che non crolla
già mai la cima per soffiar di venti.

martedì 22 settembre 2015

Andare al cinema, secondo Gurdjieff


Gurdjieff era capace di trattare i bambini come adulti e gli adulti come bambini. Ai primi assegnava esercizi di attenzione, dei secondi diceva spesso che erano fermi all'età infantile. Per conseguenza, un adulto può trarre profitto da un esercizio gurdjieffiano assegnato a un bambino. Eccone uno contenuto in The Gurdjieff Years di Louise March, buon testo di Quarta Via non tradotto in italiano.

"Gurdjieff mi chiese di insegnare a Michel [de Salzmann] a contare in tedesco, poi gli disse: 'Adesso puoi andare al cinema, ma non stare semplicemente seduto a guardare. Conta in tedesco dentro di te, da uno a dieci e poi al contrario. Eins, zwei, drei...'".

Si tratta di un esercizio di divisione dell'attenzione. Alfred Richard Orage ne descrisse uno simile, evidentemente appreso dal Maestro armeno: fissare la lancetta dei secondi di un orologio, contando dentro di sé da uno a dieci e poi al contrario, per qualche minuto; una volta acquisita padronanza dell'esercizio, aggiungere la ripetizione silenziosa del verso di una poesia.

Esaminiamo l'esercizio assegnato a Michel de Salzmann: esso è preciso ("Devi lavorare in modo preciso con qualcosa di preciso", diceva Gurdjieff). I numeri sono diversi e non vanno detti a caso, né sempre allo stesso modo. Inoltre, la lingua deve essere straniera. Per ripetere una simile successione di parole, abbiamo bisogno di usare attenzione: questo sforzo impedisce di perderci nella visione del film. Come disse Madame de Salzmann (madre di Michel): "Solo una forza volontaria può liberarmi dal potere di una forza involontaria". Sembra qui in atto la divisione dell'attenzione tra due centri: l'emozionale, connesso alla visione delle immagini, e l'intellettuale.

A un altro bambino, Paul Beekman Taylor, Gurdjieff raccomandò di essere consapevole del respiro mentre parlava, sottolineando che la forza del discorso derivava dalla capacità di respirare correttamente. Anche qui siamo di fronte a una divisione dell'attenzione, stavolta tra il centro motorio (il respiro) e quello intellettuale (le parole). 

Sempre la De Salzmann ha detto: "Quel che è necessario in noi ... è creare un'energia più attiva, capace di resistere alle influenze circostanti ... Se l'attenzione non viene diretta su qualcosa in modo cosciente, viene sottratta". Fare attenzione sembra dunque un modo di soddisfare il primo requisito del Lavoro: evitare le perdite di energia. Grazie all'attenzione, nei centri inferiori viene fatto ordine, ponendo fine al loro funzionamento scorretto che "ci impedisce di fare uso dei centri superiori" (Gurdjieff). Conseguentemente, anche ciò che stiamo facendo ci viene meglio.

"Questo Lavoro riguarda lo sviluppo della consapevolezza. La luce della consapevolezza cura molte cose errate." (Nicoll)

Non sappiamo se quella sera al cinema Michel de Salzmann, che all'epoca aveva sette anni, si sia divertito. Sappiamo però che prima di morire diresse per undici anni, unico tra i figli di Gurdjieff, la Gurdjieff Foundation, ispirando quindi il cammino di centinaia di persone.


Vien dietro a me, e lascia dir le genti: 
sta come torre ferma, che non crolla
già mai la cima per soffiar di venti.

lunedì 21 settembre 2015

I lunedì della poesia: I figli


I figli sono
i silenzi dei genitori

Destinati a tacere in modo diverso
Trovare le parole
per quanto padri e madri non dissero

Superare il genitore
è mettere fiori nelle sue fessure

Ogni padre lascia un quadrato bianco
dove il figlio s'espanderà
Crescerà caricando due orologi

Un silenzio
sempre diverso dal precedente

Vien dietro a me, e lascia dir le genti: 
sta come torre ferma, che non crolla
già mai la cima per soffiar di venti.

domenica 20 settembre 2015

Frate Lorenzo


Al mistico e poeta Sufi Fariduddin Attar è attribuita la frase: "Ogni Maestro rivela la verità nel suo modo speciale e poi scompare". Quando Beryl Pogson, segretaria di Maurice Nicoll, raccolse l'eredità spirituale di quest'ultimo nel 1955, introdusse nell'Insegnamento alcune passioni personali, come lo studio di Shakespeare o di Frate Lorenzo della Resurrezione.

Quest'ultimo era stato un mistico francese del XVII secolo, autore del libro La Pratica della Presenza di Dio. L'opera è nota negli ambienti cosiddetti dalla nuova spiritualità, soprattutto di ispirazione orientale: le edizioni Vidyananda di Assisi le hanno ristampate recentemente e il monaco hindu Swami Veetamohananda, a Parigi, vi ha dedicato un bel commento.

Come per la Filocalia, riscoperta in Occidente anche grazie al compendio (The Prayer of the Heart, 1951pubblicato da E. Kadloubovsky e G.E.H. Palmer, studenti di Ouspensky, pure lo studio di Frate Lorenzo avvenuto in Quarta Via dagli anni Cinquanta potrebbe avere contribuito alla sua popolarità.

Ecco alcuni estratti da La pratica della presenza di Dio, che forse aiuteranno a capire perché sessanta anni fa questo libro venne considerato utile a uno studente di Quarta Via. L'io narrante è l'abate de Beaufort, che riporta le sue conversazioni con Frate Lorenzo.

"Disse che i pensieri rovinano tutto, che il male comincia da lì, e che bisogna aver cura di respingerli non appena ci accorgiamo che non sono necessari alla nostra occupazione presente."

"Per lui il tempo della preghiera non era minimamente differente da qualunque altro momento. Faceva i suoi ritiri quando il padre priore gli diceva di farli, ma non li desiderava né li chiedeva, perché anche il lavoro più impegnativo non lo distoglieva da Dio."

"Disse che per giungere ad abbandonarsi a Dio come Lui vuole bisogna vegliare attentamente su tutti i moti dell'anima, che sono presenti sia nelle cose spirituali che in quelle più grossolane."

"Più quel che faceva era contrario alla sua disposizione naturale, più l'amore che glielo faceva offrire a Dio aveva valore."

"Evitava di rispondere alle domande curiose che non portavano a niente e servivano solo a confondere la mente e inaridire il cuore."


Vien dietro a me, e lascia dir le genti: 
sta come torre ferma, che non crolla
già mai la cima per soffiar di venti.

venerdì 11 settembre 2015

In viaggio


Si riparte. E si ritorna domenica venti settembre.

Vien dietro a me, e lascia dir le genti: 
sta come torre ferma, che non crolla
già mai la cima per soffiar di venti.

giovedì 10 settembre 2015

Scuole


È meglio far parte di una Scuola, anche se ci sono cose che ci lasciano perplessi, che non fare parte di nessuna Scuola. 

Il valido studente trae profitto anche dal cattivo maestro; il cattivo studente spreca anche il valido maestro. Inoltre, il valido studente è aiutato dall’alto. Anche il suo maestro non è che uno strumento di questo aiuto superiore.

Quando si è davvero studenti, lo si è innanzitutto delle forze superiori. Queste usano i maestri, e possono usarli anche facendoli sbagliare.

Lo studente deve pensare a fare al meglio il proprio Lavoro, non a fare l’esame al maestro. Se diciamo di sì solo a ciò che rientra nei nostri parametri, quando mai potremmo cambiare?

Pensare all'impeccabilità del maestro anziché alla propria, è un altro modo di mancare il punto.

Un maestro può essere efficace per uno studente semplicemente facendolo soffrire o creando ostacoli. Quando si entra in un dojo Zen, la prima cosa che si incontra è la pietra di inciampo, la soglia rialzata: simboleggia il fatto che il cammino spirituale consiste, sin dall'inizio, nel superare ostacoli.

È importante riconoscere che abbiamo bisogno di aiuto. Questo è il motivo per cui si sta in una Scuola. Non è importante che in quest’ultima ci siano tante persone, ma che siano di buon livello. Ogni Scuola crea ostacoli ai suoi studenti. Come è stato detto, le Scuole non esistono per rendere facile il Lavoro, ma per renderlo possibile.

Tutto è dietro “pagamento”.

Certo, anche la vita crea attrito, ma quanto a lungo riusciamo a sostenervi uno sforzo prolungato di divisione dell'attenzione? Volgendoci intorno, tutto nella vita viene e rimanda al sonno. In una Scuola, ogni volta che ci si guarda intorno, si vedono volti di studenti intenti al nostro stesso sforzo. Tutto sembra dire, con il Buddha: "Chairaveti, Chairaveti", "Prosegui, prosegui". Una Scuola rende più facili gli sforzi prolungati: e quante volte Gurdjieff ha detto che sono l'unica cosa che conta?

Vien dietro a me, e lascia dir le genti: 
sta come torre ferma, che non crolla
già mai la cima per soffiar di venti.

mercoledì 9 settembre 2015

Osho e Gurdjieff: fuori dal "carcere", dentro al carcere


Molto è stato scritto sulle analogie e le differenze tra Osho e Gurdjieff. Una delle similitudini meno note e più curiose è che entrambi, mentre insegnavano a evadere da "prigioni" interiori, finirono per questo stesso insegnamento in prigioni esteriori. La disavventura raggiunse entrambi nel Paese in cui il loro lavoro avrebbe dovuto raggiungere la massima fioritura: gli USA.

L'arresto di Osho in North Carolina, nel 1985, è vicenda nota. Quello di Gurdjieff in America, negli anni Trenta, è sconosciuto ai più. La storia è raccontata da Fritz Peters in I miei anni con Gurdjieff e ripresa da J. Webb in The Harmonious Circle. Secondo questi autori, una donna di Chicago cominciò a seguire devotamente Gurdjieff in tutti i suoi spostamenti americani, finché la famiglia non intervenne facendola rinchiudere in manicomio. Quando ella si suicidò pochi giorni dopo, la situazione precipitò: Gurdjieff "venne incarcerato, mi pare, nell'isola di Ellis, per dieci giorni" (Peters). Grazie all'interessamento dei suoi studenti, il Maestro armeno fu liberato, ma dovette lasciare il Paese e in seguito avrebbe incontrato difficoltà a rientrarvi (Webb).

Come Osho, dunque, Gurdjieff fu arrestato per reati verosimilmente mai commessi, rimase in carcere dieci giorni, fu liberato grazie ai suoi studenti e dovette lasciare gli USA. Qui finiscono le analogie e iniziano le differenze. Mentre la detenzione e l'espulsione di Osho sarebbero state da lui più volte denunciate in pubblicosu quelle di Gurdjieff calò il silenzio: il Maestro armeno apparentemente non ne parlò, i suoi studenti tacquero (a eccezione di Peters, studente sui generis) e la biografia più famosa (James Moore) non la menziona. Anche Gurdjieff in the Public Eye 1914-1949, una raccolta di articoli giornalistici su Gurdjieff opera dello studente gurdjieffiano P.B. Taylor, tace sull'episodio. Il risultato è che oggi di un evento così clamoroso abbiamo solo scarne notizie.

Forse per Gurdjieff e i suoi studenti le accuse, la detenzione e l'espulsione erano stati attrito e "pagamento", ovvero esperienze da attraversare in silenzio. In Quarta Via si dice: l'unica autodifesa è l'autoricordo. Anche per questo il tempo è stato galantuomo: oggi tutte le polemiche sono evaporate e di Gurdjieff viene ricordato (quasi) solo l'Insegnamento. Gli "io" hanno lasciato il tempo che hanno trovato.

Vien dietro a me, e lascia dir le genti: 
sta come torre ferma, che non crolla
già mai la cima per soffiar di venti.

martedì 8 settembre 2015

Un Maestro come seconda forza


Schematizzando al massimo, nella triade del ricordo di sé il nostro sforzo è la prima forza; la nostra meccanicità la seconda forza, o "contraria"; il Maestro (o l'Insegnamento, o la Scuola) la terza forza, o "neutralizzante". Tuttavia è stato detto: "All'inizio, questo sforzo va fatto sotto la direzione di un insegnante; in seguito, un uomo può sapere da solo quando occorre esercitare uno sforzo, e come esercitarlo" (Gurdjieff in C.S. Nott, Teachings).

Il maggiordomo maturo è quello che riesce a darsi da solo degli esercizi: allora, può capitare che il Maestro assuma il ruolo di seconda forza. D'altra parte, quest'ultima è indispensabile: senza di essa non c'è Lavoro. La letteratura di Quarta Via abbonda di esempi in cui il Maestro ha comportamenti apparentemente irati o scurrili (ovvero meccanici), a causa dei quali lo studente è costretto a esercitare il distacco e divenire, per così dire, la propria terza forza.

Più di una volta Gurdjieff ha detto: "Bisogna imparare a distinguere quando parlo sul serio e quando parlo per metafore" (C.S. Nott, Teachings; P.B. Taylor, Real Words). Altrettanto importante sembra saper distinguere quando le sue parole (e azioni) sono terza forza e quando sono seconda forza. Nel rapporto Gurdjieff/Fritz Peters, a esempio, il primo sembra assumere il ruolo ora di terza, ora di seconda forza, mentre non sempre il secondo appare in grado di essere terza forza. Da parole e atteggiamenti "di seconda forza", nacque buona parte dell'immagine pubblica negativa di Gurdjieff.

Bisogna sottolineare che questi discorsi non riguardano solo una persona morta settanta anni fa, perché il rapporto Maestro/studente continua a correre lungo gli stessi binari. Da un lato, il Maestro fornisce la teoria, spiega il Lavoro; dall'altro, dà la pratica, mette l'allievo alla prova. Egli ha sempre cura di mostrare prima "dove si trova lo scoglio che impedisce di annegare" (R. Zuber). Questo scoglio si chiama ricordo di sé o attenzione divisa: conviene scoprirne velocemente il gusto, giacché "per aggrapparci all'ignoto, non abbiamo che questo fuggevole punto di riferimento" (J.C. Carrière).

Vien dietro a me, e lascia dir le genti: 
sta come torre ferma, che non crolla
già mai la cima per soffiar di venti.

lunedì 7 settembre 2015

I lunedì della poesia - Quadri I


La caduta di Icaro

Il sole splendé come mai,
si prese tutte le divisioni degli uomini.
Eravamo uniti e solidali,
capaci d’accogliere i doni del cielo.
Guardate la terra incurvata,
che respiro largo.
Sempre così dovremmo camminare
– lunghi, curvi, sottili,
ponti da cielo a terra.
Una notizia correva tra gli orizzonti,
batteva nei sassi e gli animali,
“Siate pronti”.
E noi travisati, deformati, unico modo d’essere aperti.
Sarai accolto, angelo caduto, noi amiamo il tuo fallimento,
le ali bruciate,
materia prima della luce.
Riceverti ci apre il cuore
– anche la terra ti loda, è pronta.
Questa è casa tua.


La liberazione di San Pietro

Lo so,
la grata è sempre uguale,
i quadrati non cambiano.
Ripeti gli stessi schemi,
la vita un perimetro immutabile.
L’armatura è solo per rifletterti rigido,
a spigoli acuti.
Nessun’altra scelta che il sonno,
sia te sia i carcerieri.
Ma guarda
– un tocco nei punti giusti,
e superi le linee parallele.
Tu hai solo dimenticato.
Memorizza i varchi,
le colature sottili.
Guarda bene il sonno degli altri.
La prossima volta sarai solo.


Autoritratto

Il mondo ti sta guardando.
Le esperienze bizzarre che vivi
sono l’occhio del pianeta in te.
La tua vita non è più solo tua,
anche di chi ti guarda.
A ogni istante dai un abbraccio,
in te un punto centrale da cui voli a Dio,
gli uomini.
Se hai un dubbio
cerca sempre lo sguardo degli altri,
vi troverai un appoggio alla verità,
non sai come.
Hai la schiena eretta – sì – ma ti piace inclinarti,
osservare in tralice
                               e crearti difficoltà.
Importa essere stupidi,
guardare le persone
con un sorriso da qualche parte nel corpo.
Per ritrarti ti sorprendi,
non riposi, ma cambi abitudini.
Fai una pausa inaspettata,
ti regali, vai oltre chi ti guarda.

Non sei un quadro.

Vien dietro a me, e lascia dir le genti: 
sta come torre ferma, che non crolla
già mai la cima per soffiar di venti.

domenica 6 settembre 2015

Sonno e sogni lucidi


Con la crescente diffusione dei libri di Castaneda e sul sogno lucido, capita spesso di sentire domandare: "Cosa dice la Quarta Via del sonno e dei sogni lucidi?". La domanda è probabilmente motivata dal fatto che, secondo alcuni, Gurdjieff sarebbe tra le fonti letterarie che hanno ispirato l'opera di Castaneda.

La risposta è: "Non molto". Come ha scritto Maurice Nicoll: "Questo Lavoro non parla direttamente dei sogni. Tuttavia, c'è qualcosa che viene detto" (Commentari, 20 Novembre 1943). Prima di continuare a leggere questo interessante saggio di Nicoll, vediamo alcune delle cose che disse Gurdjieff sull'argomento. 

Nel soffitto della Casa di Studi al Prieuré, egli aveva fatto scrivere ad Alexandre de Salzmann, in un alfabeto speciale, 38 famosi aforismi, tra cui: "Il riposo non dipende dalla quantità, ma dalla qualità del sonno" e "Dormi poco senza rimpianto". Egli doveva mettere in pratica entrambi, se è vero quello che racconta T. Tchechovitch (A Master in Life): "[Al Prieuré] Non abbiamo mai visto Gurdjieff andare a letto prima di noi, o alzarsi dopo di noi".

Il 9 settembre 1943, a Parigi, qualcuno interrogò Gurdjieff direttamente sul sogno lucido: "Si può dormire consapevolmente, ovvero restare consci durante il sonno?". La risposta fu: "Sì, ma non per te ora". Dopodiché, il Maestro passò ad argomenti leggermente diversi. Nell'estate del '49, poco prima di morire, ribadì a un giovane P.B. Taylor l'importanza del dormire poco ma bene, aggiungendo: "Se dormi troppo a lungo, cominci a sognare, e quando sogni non raccogli energia in modo efficiente. Anzi, potresti perderla".

L'argomento era stato toccato anche in una conferenza al Prieuré del 30 gennaio 1923. Qui si parla di stati intermedi tra sonno e veglia, specificando che sono dovuti all'interruzione o meno dei collegamenti tra i centri. "Lo scopo del sonno si raggiunge solo quando tutte le comunicazioni tra i centri sono interrotte ... Solo in tal caso la macchina può produrre ciò che il sonno è destinato a produrre ... Il sonno profondo è uno stato in cui non abbiamo né sogni né sensazioni. Se ci sono dei sogni, significa che uno dei collegamenti non è sospeso ... Insomma, se la macchina è in buono stato, ha bisogno di pochissimo tempo per produrre quella certa quantità di sostanza che costituisce la ragion d'essere del sonno; in ogni caso, molto meno di quanto siamo abituati a dormire".

Torniamo al saggio di Maurice Nicoll citato in apertura, A Brief Talk About Dreams. Eccone alcuni estratti: "La principale cosa che dice [il Lavoro] è che è inutile studiare i sogni, e che tutti i sistemi psicologici basati sullo studio dei sogni sono fantastici, perché non appena cominci a studiare i sogni, li alteri". "Il Lavoro però insegna qualcos'altro sui sogni: per esempio, che esistono diversi tipi di sogni non riconosciuti dalla psicologia occidentale. I sogni, insegna il Lavoro, sono di diverso tipo perché possono venire da ogni centro e da ogni parte di un centro. Una volta, parlando con G., mi disse che la maggior parte dei sogni viene dal centro motorio ... ovvero, sono echi di cose viste durante il giorno, sensazioni e movimenti ... Essi non hanno né significato né importanza ... I sogni istintivo-motori sono, in genere, caotici ... [Ma esistono anche] sogni intellettuali, sogni emozionali, sogni sessuali ... e sogni che vengono dai centri che non usiamo, ovvero il Centro Emozionale Superiore e il Centro Intellettuale Superiore. Su essi voglio dire una cosa, per ora: i sogni che vengono dalle parti superiori del Centro Emozionale o dal Centro Emozionale Superiore sono sempre caratterizzati da quella che potremmo grossolanamente chiamare una formulazione teatrale ... La maggior parte di noi riconoscerà che talvolta siamo visitati da sogni molto strani, in qualche caso magnificamente strutturati e portatori di un messaggio che non riusciamo a decifrare."

Non è un'opinione di poco conto: prima di diventare maestro di Quarta Via, Nicoll fu un eminente psicologo della Scuola di Jung, oltre che un grande amico di quest'ultimo. 

Addendum

Vien dietro a me, e lascia dir le genti: 
sta come torre ferma, che non crolla
già mai la cima per soffiar di venti.

venerdì 4 settembre 2015

Una frase di Rodney Collin


"[Nel] momento in cui un uomo per la prima volta sente parlare del ricordo di sé, [se] lo collega con qualcosa che ha udito o letto prima, con qualche termine religioso o filosofico, od orientale, che egli già conosce, immediatamente l'idea sparisce, perde il suo potere. Perché essa può aprirgli nuove possibilità solo come un'idea totalmente nuova." (Rodney Collin)

Non è raro che le persone arrivino alla Quarta Via e al ricordo di sé in modo indiretto, dopo averne sentito parlare in altri contesti. Classico caso è quello di Osho, che parla di ricordo di sé praticamente in ogni libro, indicandolo sempre come la tecnica di Gurdjieff.

Anche in questo modo, udire per la prima volta l'idea del ricordo di sé è un'esperienza potente. La frase di Rodney Collin citata in apertura va probabilmente intesa nel senso che l'idea del ricordo di sé non deve cadere nella parte sbagliata dei centri (l'apparato formatorio), non nel senso che fuori dalla Quarta Via non esistano concetti equivalenti. 

Un testo indiano in cui Osho vedeva già espressa l'idea del ricordo di sé è il Vigyana Bhairava Tantra, da lui commentato usando come testo di base la traduzione (1957) di Paul Reps. Molti anni prima, C.S. Nott riteneva di aver trovato in Some sayings of the Buddha (traduzione dal pali di F.L. Woodward, 1925) una descrizione quasi esatta di quello che lui intendeva come ricordo di sé. La stessa parola sati o smriti, uno dei "sette fattori di illuminazione del buddhismo", vuol dire ricordo. Più volte è stato scritto in questo blog come a Francis Roles bastò sentire dire a Shantananda Saraswati "Il problema è che non ricordiamo noi stessi", per pensare di aver ritrovato le sorgenti del Sistema in India. Nisargadatta Maharaj è un altro famoso maestro indiano che parlava spesso e volentieri di ricordo di sé. Tutte queste fonti è improbabile o impossibile che derivino da Gurdjieff; d'altra parte, quest'ultimo disse più volte di essere stato in India, "dove l'evoluzione dello spirito umano trova il suo centro" (P.B. Taylor, Gurdjieff e Orage).

Pertanto, non è necessariamente un male imbattersi nell'idea di ricordo di sé in una fonte diversa dalla Quarta Via. Il punto, come concede lo stesso Rodney Collin qualche riga dopo, è ricevere l'idea in modo corretto: "Se [questa idea] viene collegata con qualche associazione conosciuta, significa che è entrata nella parte sbagliata della mente, dove verrà archiviata come qualsiasi altro pezzo di conoscenza. Sarà stato perso uno shock e solo con grande difficoltà un uomo potrà riavere la stessa opportunità".

Se invece l'idea del ricordo di sé viene ricevuta nel modo giusto, è sempre potente, qualunque ne sia la fonte.

Vien dietro a me, e lascia dir le genti: 
sta come torre ferma, che non crolla
già mai la cima per soffiar di venti.

giovedì 3 settembre 2015

Il cantastorie Gurdjieff

Ingresso all'ex bagno turco - Prieuré 2011
Per accedere al bagno turco del Prieuré, Gurdjieff poneva una condizione ai nuovi venuti: raccontargli almeno tre storie. Se il nuovo arrivato non aveva tre storie da raccontare, non poteva accedere ai bagni con il Maestro.

Il giornalista Carl Zigrosser ha scritto forse il miglior articolo su Gurdjieff mentre quest'ultimo era in vita, nel giugno 1929 per The New Republic. In esso leggiamo che Gurdjieff diceva di apprezzare tre tipi di uomini: chi sapeva bere, chi sapeva raccontare storie e il terzo... sarebbe stato rivelato più in là (cosa che non avvenne).

Sorge una domanda: cosa voleva fare Gurdjieff esortando i suoi allievi a raccontare storie? Sappiamo che lui era un cantastorie figlio di un cantastorie. Forse, voleva esortare i suoi studenti a trasformarsi in cantastorie a loro volta. Sul ruolo della favola in contesto esoterico ha scritto un bel saggio M.L. Travers, autrice di Mary Poppins e allieva di Gurdjieff (Pauwels, Monsieur Gurdjieff). 

Proviamo a fare delle ipotesi. Esporre l'Insegnamento in modo discorsivo è relativamente facile: mascherarlo tramite parabole significa introdurre una difficoltà in più, il che nel Lavoro è sempre utile. Le "storie" richiedono l'uso di tutti e tre i centri: non solo l'intellettuale e l'emozionale, ma anche l'istintivo-motorio, giacché si recitano davanti a un pubblico (appare significativo, al proposito, che per correggere i suoi stessi libri Gurdjieff se li facesse rileggere a voce alta: "Gurdjieff impara più dalle orecchie che dall'occhio", scrive il succitato Zigrosser). Ancora: la favola consente di parlare dei mondi interiori senza usare la parola "io". Si svolge in una dimensione fuori dal tempo e dallo spazio.

Secondo le testimonianze, Gurdjieff faceva spesso ricorso a metafore e parabole. La sensazione è che fossero farina del suo sacco. Una volta, negli incontri parigini durante la guerra, disse a uno studente: "Non adoperare i termini che uso io: trova le tue parole, le tue espressioni". In altre parole, gli stava chiedendo di essere creativo come lui. Ecco forse un altro motivo per cui Gurdjieff domandava ai suoi studenti di raccontare storie, ovvero di esercitare la creatività. Il ricordo di sé, in fondo, è anche una questione di creatività: l'arte di essere presenti non si può racchiudere in una formula valida per tutti i momenti, ma ogni volta richiede di scoprire la strategia migliore nel momento.

Quanto agli ascoltatori, il fatto che Gurdjieff parlasse spesso per metafore imponeva uno sforzo in più: il discorso andava preso alla lettera o no? Nel secondo caso, cosa voleva dire veramente? Lui stesso metteva in guardia i nuovi venuti: "Non credere mai a ciò che mi senti dire. Impara a distinguere tra ciò che va preso alla lettera e ciò che è metaforico" (C.S. Nott, Teachings). Sul finire dei suoi anni, ai bambini diceva: "Imparate a raccontare storie. Le storie fanno la verità. Non bisogna credere a tutte le cose che dico, anche se sono sempre vere". "Non mentite mai: recitate. Siate qualcosa di diverso rispetto a ciò a cui siete abituati. Conoscete cosa non siete e saprete cosa siete. Recitare un ruolo insegna la sincerità e permette di mutare i propri atteggiamenti" (P.B. Taylor, Real Worlds).

Per concludere con le parole che J.G. Bennett mise in bocca a Gurdjieff: "Non cercare mai di insegnare direttamente. Sempre con i bambini inizia da lontano. I bambini devono scoprire da soli, altrimenti cresceranno come schiavi" (Bennett, Witness).

Vien dietro a me, e lascia dir le genti: 
sta come torre ferma, che non crolla
già mai la cima per soffiar di venti.

mercoledì 2 settembre 2015

Paul Beekman Taylor


Conoscere da bambini un uomo come George I. Gurdjieff è un'esperienza decisiva. Anche se crescendo sembra che ci si dimentichi di essa, in tarda età si realizza che l'incontro con quella persona, e l'esposizione ai suoi insegnamenti, è stato l'evento più importante della propria vita.

È questo il caso di Paul Beekman Taylor, che da quindici anni è noto agli studenti di Quarta Via come autore di diversi libri su Gurdjieff (in Italia è stato pubblicato il solo Gurdjieff e Orage, Fratelli in esilio). Sono libri singolari, spesso curiosi, come Gurdjieff in the public eye: una raccolta di tutti gli articoli di giornale scritti su Gurdjieff finché era in vita. Dietro questi testi vi sono poderose ricerche di archivio che a volte recuperano notizie interessanti (i carteggi degli studenti di Gurdjieff sembrano un'inesauribile fonte di nuovi aneddoti e citazioni del Maestro armeno): questo si deve alla bibliomania dell'autore, che per molti anni è stato professore di Letteratura in diverse università del mondo.

Dal 1998, ritiratosi in pensione, Paul Beekman Taylor scrive praticamente solo di Gurdjieff, che conobbe da bambino (la sua sorellastra era figlia del Maestro). La produzione gurdjieffiana di P.B. Taylor annovera per ora sette titoli, di cui l'ultimo sembra il più interessante: Real Worlds of G.I. Gurdjieff. Il suo interesse non si deve tanto alle nuove curiosità (a esempio, i rapporti segreti dell'FBI su Gurdjieff, molto fantasiosi), quanto al fatto che finalmente l'autore condivide la propria esperienza personale con Gurdjieff, mettendoci a parte di ciò che quest'ultimo gli disse alla fine degli anni Quaranta.

Anzitutto, Taylor ci dice che era la presenza fisica del Maestro la più grande lezione. "Conoscere Gurdjieff personalmente era un'esperienza che conferiva al suo insegnamento una forza che non saprei riprodurre a parole." Questo, anche se Gurdjieff era allo stesso tempo l'incarnazione e la negazione viventi del suo insegnamento. "Dio può recitare la parte del diavolo, ma il diavolo non può recitare la parte di Dio", scrive Taylor, lasciando che ognuno tragga le proprie conclusioni ("Trovare la lezione, con Gurdjieff, era di per sé una lezione").

Di tutte le cose che Taylor bambino e adolescente udì dalle labbra di Gurdjieff, conservandole nella sua memoria per settanta anni, mi piace ricordarne tre.

"Una volta parlò del sonno, sottolineando che i bambini dormivano troppo. Se si imparasse a dormire in modo efficiente, sei ore basterebbero. Diceva che si poteva dormire anche durante il giorno e che esistevano metodi per misurare l'efficacia del sonno. Uno era tenere una matita in mano, appisolarsi, e quando la matita cadeva di mano, era il segno che il sonno era stato sufficiente. Se dormi troppo a lungo, spiegava, cominci a sognare, e quando sogni non raccogli energia in modo efficiente. 'Anzi, potresti perderla'."

"Parlava anche di quanto fosse importante essere consapevoli del respiro, soprattutto mentre si parlava, perché la forza del discorso ha a che fare con la capacità di respirare correttamente."

"Il giorno prima di lasciare Parigi, nell'estate del 1949, camminando lungo Avenue des Ternes ... notai Gurdjieff tutto solo a un tavolino di caffè. Mi lanciò un'occhiata nel suo tipico modo, muovendo gli occhi e non la testa. Sentii che voleva che mi avvicinassi. Per me era l'occasione di salutarlo, e quando mi diressi verso di lui, con la testa mi fece cenno di accomodarmi sull'altra sedia." In quell'ultimo incontro tra Gurdjieff (che sarebbe morto pochi mesi dopo) e il giovane Taylor, parlò solo il primo, dicendo diverse cose. Taylor le riferisce un po' in questo libro, un po' in www.gurdjieff-legacy.org "Gurdjieff raccontò una storia su un uomo che voleva diventare discepolo di un maestro. Quest'ultimo gli disse: 'Adesso vai via e osserva te stesso. Torna dopo averci provato. Se ricordi te stesso, ti accetterò come discepolo'. L'aspirante discepolo se ne va, lavora duro e quando ritorna, l'insegnante gli chiede: 'Ora comprendi cosa vuol dire osservare te stesso, ricordare te stesso?' 'Sì', rispose l'altro. 'Risposta sbagliata', disse il Maestro, e lo mandò via". "Non parlare mai di ciò che in realtà non conosci", furono le ultime parole di Gurdjieff a Taylor, facendogli anche l'esempio negativo di un suo studente all'epoca ben noto.

A quel tavolino di caffè, sembra che Taylor non profferì parola. Settanta anni dopo, sull'argomento avrebbe scritto sette libri.

Vien dietro a me, e lascia dir le genti: 
sta come torre ferma, che non crolla
già mai la cima per soffiar di venti.

martedì 1 settembre 2015

Sonnez très fort


Sonnez très fort  (“Suonare con molta forza”) era scritto sopra il campanello del castello del Prieuré, negli anni in cui Gurdjieff vi teneva il suo Istituto per lo Sviluppo Armonico dell’Uomo. Diversi osservatori hanno notato questo dettaglio. Secondo le testimonianze, occorreva suonare energicamente più volte prima che qualcuno venisse ad aprire.

Gurdjieff amava insegnare per metafore. Nell’ala ovest del Prieuré c’era una libreria di quercia che il “bibliolatra, bibliomane e bibliofilo” C.S. Nott definì “la più bella che avessi mai visto”. Piccolo particolare: gli scaffali erano vuoti. Il messaggio anti-intellettuale di questa messinscena era evidente. Anche il Sonnez très fort che colpì tante persone celava forse un messaggio. Cosa bisognava suonare con determinazione? Evidentemente, il DO dell’ottava. Entrando nel Prieuré – cominciando un nuovo cammino spirituale – occorreva convinzione: eventuali titubanze avrebbero vanificato il Lavoro sin dall’inizio. Gurdjieff “creava ostacoli di ogni genere per scoraggiare immediatamente i babbei dello spirito” (Georgette Leblanc).

All’ingresso del Purgatorio, Dante fu ammonito: “Intrate; ma facciovi accorti che di fuor torna chi ‘n dietro si guata”. Nei poemi omerici, non appena sorge l’alba i personaggi passano all’azione. Ancora e ancora, Omero ci fa sapere che “quando, figlia di luce, brilla l’Aurora dalle dita di rosa”, i suoi eroi “balzano dal letto” (non si alzano: balzano). Quando si sente dire che con il passare del tempo l’Insegnamento si diluisce e il ricordo di sé diventa più raro, sono dettagli di vita quotidiana come questo che vengono alla mente. L’alba è il momento di un particolare demone tentatore, avrebbe detto secoli dopo Isaia il Solitario: che il primo passo di una nuova ottava sia dunque fermo e deciso.

Alla fine del suo libro, Nott scrive che Gurdjieff era venuto in Occidente per suonare un grande DO. In effetti, la sua comunità di Fontainebleau fu, per noi occidentali, il punto di partenza di tante cose. In essa, certamente, il campanello d’entrata andava suonato con vigore.

Ma se entrare non era facile, uscire non presentava difficoltà. Nessun campanello da tirare con forza era posto dal lato interno. Gurdjieff, “un guardiano del meglio con la faccia del peggio” (Michel Camus), vigilava il solo lato d'entrata. “Il Lavoro è un organismo e tutti gli organismi hanno bisogno di eliminare. Ho sempre visto nelle persone che andavano e venivano qualcosa di utile per noi, perché rappresentavano quella parte che noi avevamo ‘mangiato’” (Irmis B. Popoff).

In Quarta Via è facile uscire, difficile entrare e ancora più difficile rimanere.

Vien dietro a me, e lascia dir le genti: 
sta come torre ferma, che non crolla
già mai la cima per soffiar di venti.