giovedì 30 aprile 2015

Resistere


A pranzo sul mare siamo stati fortunati, perché abbiamo trovato qualcosa a cui resistere. Il cameriere ci ha portato il cibo e l’abbiamo lasciato dov’era, senza toccarlo. Un piccolo sforzo che ha reso più prezioso l’attimo. Anche far passare le ore senza consultare il telefonino è stato un regalo. Il successo, la bellezza, il senso di una giornata, spesso dipendono da questa semplice domanda: a cosa possiamo resistere? È una benedizione avere sempre difficoltà da trasformare in Presenza.

Quando sento di avere poca energia, posso mettermi nei luoghi e nelle circostanze in cui la macchina diventa più forte, e provare a resistere. Se tutto va bene, traggo forza da ciò che normalmente mi trascinerebbe in basso. A volte, basta semplicemente fare le cose con cura. Scrivere in bella grafia, camminare lentamente.

Eppure, sforzarsi di ricordare se stessi è una contraddizione in termini. Lo sforzo può riguardare il resistere alla meccanicità. Quello che posso fare col Ricordo di Sé è restare aperto a esso, non sforzarmi di crearlo. Tutt’al più, faccio sforzi per eliminare gli ostacoli al Ricordo di Sé. 

Gli Amici giusti aiutano. Essi sono nell’attimo, eppure richiedono il pagamento di anni. Tu devi essere un amico giusto per godere della loro compagnia. Non sempre sono materialmente con te: ma ci sono dei luoghi – a esempio, il mare – dove ti rendi conto che puoi farcela “da solo”. Un respiro dietro l’altro ti accorgi che il tuo stato di presenza è insolitamente lungo. Il mare ti aiuta: è lui l’Amico, ora.

Tra poco torneremo nella grande città, l'opaca, l'ansiosa – e ci arrenderemo anche a essa.

Ed elli a me: Questa montagna è tale,
che sempre al cominciar di sotto è grave;
e quant'om più va su, e men fa male.

mercoledì 29 aprile 2015

I colori


Essere. In fondo. Al cortile. Che è. In fondo. Al cielo.
Essere. Sopra. Un’emozione. Che è. Dietro. All’anima.

In ogni situazione, può mancare solo ciò che non abbiamo dato, dice il Corso in Miracoli. Può mancare anche ciò che abbiamo dato. Un uomo davanti al cielo può essere un vuoto che guarda un altro vuoto: ha fatto molto affinché mancasse ciò che gli velava la vista.

È dagli anni Venti che l'uomo occidentale, nei giorni di sole, indossa gli occhiali scuri: ogni tanto può essere utile levarli e guardare i colori al naturale. Permettiamo a questi ultimi di entrare in noi e qualcosa, al centro del petto, comincerà a respirare. Il cuore è tra i polmoni, ma anche il cuore ha due polmoni: possiede una respirazione destra e sinistra. Quando il cuore si accende, tutto è diversificato, non ristagna, ma cresce su se stesso ramificandosi.

L’uomo antico non aveva occhiali da sole: quest’ultimo gli bruciava quotidianamente gli occhi e lui diventava più forte. Stare alle Piramidi d’Egitto o al Partenone senza occhiali scuri, come in antico: un piccolo trucco affinché questi luoghi risveglino più facilmente la nostra anima.

I colori ci massaggiano. Al naturale – sboccati, forti e decisi – traboccano nel cuore. Accompagnano un viaggio dell’anima che, ci rendiamo conto, è sempre in corso. Il cuore è ciò che per definizione ruota: esposto ai colori, ruota ancora più velocemente. La Scuola di Gurdjieff è stata definita una "scuola dell'accelerazione": guardando i colori naturali in un giorno radioso, anche noi mandiamo bagliori.

Ed elli a me: Questa montagna è tale,
che sempre al cominciar di sotto è grave;
e quant'om più va sù, e men fa male.

martedì 28 aprile 2015

Il lupo e l'agnello



"Meriterà il nome di uomo ... solo colui che [saprà] conservare indenni sia il lupo sia l'agnello che gli sono stati affidati." Queste parole gurdjieffiane contenute nell'Introduzione di Incontri con uomini straordinari sono di una certa importanza in Quarta Via. Indicano che non dobbiamo nutrire solo la parte spirituale ("l’agnello") in noi, ma anche quella terrena ("il lupo"). Come ci insegna la romana Fontana delle Tartarughe, lo scopo del Lavoro - la creazione di un’anima - non può prescindere dall'animale interiore. Allo stesso tempo, bisogna vigilare affinché il lupo non divori l'agnello.

Louis Pauwels è un ex studente di Gurdjieff e una di quelle persone che lasciano il proprio cammino spirituale parlandone male. Dopo il libro Monsieur Gurdjieff (che per decenni ha diffuso un'immagine non positiva di Gurdjieff), a distanza di molti anni è tornato a parlare di Quarta Via: “Abbiamo bisogno di due vite in noi: quella dell'addormentato e quella del risvegliato. La grande tentazione dei discepoli di Gurdjieff era arrivare ad avere una vita sola: quella della presenza assoluta. Era proprio verso questo che Gurdjieff prometteva di portarli. In questo senso si può parlare di superomismo. Ci sono state catastrofi. Anche io, dopo due anni di esercizi che mi hanno allo stesso tempo illuminato e bruciato, mi sono ritrovato in un letto d’ospedale. Avevo veramente voluto acquisire una densità sovrumana. Il sangue della vita ordinaria non fluiva più in me”.

Il suo racconto ricorda i super-sforzi solitari di JG Bennett, ma senza lo stesso lieto fine. Bennett fu salvato dalla moglie e soprattutto da Gurdjieff, che fece del suo meglio per eliminare orgoglio e vanità dai super-sforzi dell’allievo inglese. Esistevano varie contromisure per impedire queste degenerazioni: oltre alle raccomandazioni come quella citata in apertura (o trasmesse oralmente, o leggibili altrove), sappiamo da diverse testimonianze che intorno a Gurdjieff c’era spesso un’atmosfera leggera e piena di risate. Le storielle, le barzellette e le improvvisazioni teatrali (ma quando mai i Maestri non recitano?) sdrammatizzavano l’atmosfera.

Quaranta anni dopo Monsieur Gurdjieff, Pauwels ha l’onestà di riconoscere: “Era colpa mia. In fondo, mi ero lanciato in questo insegnamento con una tensione esagerata e un orgoglio senza misura che Gurdjieff non richiedeva e anzi contro il quale metteva in guardia”. Forse, essendosi accorto di aver trascurato il "lupo" ("il sangue della vita ordinaria"), Pauwels cominciò ad alimentarlo fino a quando esso non fagocitò anche "l'agnello". 

Resta da dire che Bennett aveva fatto molti pagamenti - in termini di vita, tempo e denaro - riuscendo a risollevarsi dalla sua situazione: chissà se Pauwels aveva fatto altrettanto.

Ed elli a me: Questa montagna è tale,
che sempre al cominciar di sotto è grave;
e quant'om più va sù, e men fa male.


lunedì 27 aprile 2015

I lunedi della poesia - Monte Mario



MONTE MARIO
In questo lembo di suolo
si è 

visto e rivisto
il cielo

landa tutta sguardi
e
trasparenze progressive

qui
gli uomini
mangiano la terra
che li sostiene

il corpo
un’aureola di sempreverdi

ti cova
come il grano la terra

Ed elli a me: Questa montagna è tale,
che sempre al cominciar di sotto è grave;
e quant'om più va sù, e men fa male.

domenica 26 aprile 2015

I suoni


I suoni fluttuano nell’aria risvegliando ora l’una, ora l’altra parte del nostro corpo. Non si dovrebbe chiedere: in quale parte del corpo avverti questo suono? Ma: quale parte del corpo è da questo suono agganciata e sollevata? Dietro ogni parte che s'alza va la nostra anima, grazie ai suoni aleggiamo su noi stessi.

Tutti i suoni uditi con presenza fanno scomparire un corrispondente suono interno. Il suono reale dissolve quello immaginario. D’altra parte, il suono udito distrattamente si trasforma subito in immaginazione.

Nei luoghi in cui c'è un suono continuo, a esempio in riva al mare, Lavoriamo senza interruzione. Immersi nei suoni, ogni nostro lato ha una definizione. Sulla punta delle orecchie troviamo la via di fuga. 

Davanti ai suoni, diventiamo come quadri dentro una cornice. I suoni percepiti con l'attenzione divisa sono una ghirlanda intorno alla testa, efflorescenza generata dalla nostra attenzione. Senza i suoni, l'attimo sarebbe più piccolo. 

Ogni fontana è un'espediente per avere un suono continuo cui prestare attenzione. Le fontane invitano all'avvicinamento, a un ascolto sempre uguale e diverso. Nella Piazza Farnese di Roma, il suono e l'acqua giungono letteralmente in cima a un fiore. Il suono è una fioritura dell'essere, le orecchie sono parte del nostro pagamento per creare un'anima.  

C'è un suono interiore che emettiamo per il solo fatto di essere vivi: esso è il negativo del mondo. Chi per avventura abbia a lungo un orecchio fasciato può farsene un'idea: l'orecchio buono continua a udire, nell'orecchio muto sorge la controfigura dei suoni. Questo "anti-suono" è il ronzio del cuore.

Ed elli a me: Questa montagna è tale,
che sempre al cominciar di sotto è grave;
e quant'om più va su, e men fa male.

venerdì 24 aprile 2015

In chiesa

 

OASI è acronimo per “Oltre Al Sé Inferiore”. In città, le oasi sono spesso le chiese. Isole di silenzio dove ci si può rifugiare per ricaricare le batterie o lasciare che il fango si depositi sul fondo, fino a quando le acque non tornino limpide.

Uno dei motivi per cui oggi le chiese sono semivuote è che non riconosciamo di avere bisogno di aiuto. A tutte le ore, in noi c'è una battaglia che ha bisogno di supporto esterno, tanto più se ci troviamo nella selva oscura di un mondo in cui "il sonno è indotto e mantenuto da tutta la vita circostante, da ogni circostanza esterna" (Gurdjieff). Riconoscere la necessità di ricevere aiuto è un passo importante in Quarta Via (e non solo).

Accade che certe chiese siano come un ascensore che ci porti velocemente in alto. In passato, si sono impregnate di energie sottili che ora ricedono goccia a goccia, lentamente. Per questo, più passa il tempo, più le senti cariche. Sembrano vini che invecchiano bene.

Certamente il cristianesimo è una religione che fa ampio uso dell’immaginazione. Basti pensare al corpo di Cristo che viene scorto nell’ostia. Ouspensky diceva: “Immaginate di essere già consci”, affinché pian piano si cominci a diventarlo. È possibile fare buon uso anche dell’immaginazione, il “nemico numero uno” della Presenza. Si legge che il cristiano impari a mangiare dall’eucaristia, apprenda i sapori dalla liturgia. E cosa può rendere più presenti che immaginare di avere il corpo del proprio Maestro davanti a sé? Anzi, Dio stesso? 

Le chiese cristiane sono nate come luoghi in cui chiedere letteralmente aiuto, tramite l'orazione. Di fatto, finiscono con l'offrire esse stesse aiuto al di fuori di ogni rito, come tutti i templi del mondo. 

Ed elli a me: Questa montagna è tale,
che sempre al cominciar di sotto è grave;
e quant'om più va su, e men fa male.


giovedì 23 aprile 2015

Il miglior lavoro di cui siamo capaci


In Quarta Via Ouspensky dice: "Il ricordo di sé non può essere prodotto da un lavoro debole e lento -- il lavoro di uno o due centri soltanto. Puoi anche cominciare con due centri, ma non è sufficiente, perché gli altri centri possono interrompere il ricordo di sé e bloccarlo. Se però metti tutti i centri al lavoro, nulla può più arrestare il ricordo di sé. Devi sempre ricordare che il ricordo di sé richiede il miglior lavoro di cui sei capace".

Cosa vuol dire lasciare fuori uno o più centri dai miei sforzi per ricordare me stesso? Se lascio fuori il centro motorio, vuol dire che nonostante le mie migliori intenzioni, continuerò a grattarmi, mettere le mani tra i capelli, fare piccoli gesti inconsapevoli che portano via la presenza. Se escludo il centro intellettuale, mi trovo nella situazione del meditatore immobile nella posizione del loto, ma con la testa occupata da pensieri che impediscono l'affiorare dello stato di Presenza. Se trascuro il centro emozionale, significa forse che la mia valutazione della Presenza non è sufficiente: anche se tengo sotto controllo corpo e mente, non farò molta strada se mi emoziona di più una partita di calcio che la creazione della mia anima.

Quando questi tre centri - istintivo-motorio, intellettuale ed emozionale - si incontrano e hanno lo stesso scopo, la Presenza può diventare salda. Se continua a non apparire, può essere utile chiedermi quale ingrediente ho dimenticato.

Ricordiamoci che è impossibile essere più emozionali a comando: possiamo cercare di essere più presenti, non più emozionali. Questo è il modo di aumentare le nostre emozioni, insegnava Ouspensky. "Una carenza di emozioni indica una carenza di sforzi."

Tutto ciò, espresso con il linguaggio del Sistema, che ha il pregio di consentirci di parlare di noi stessi con distacco. Osho diceva semplicemente "Sii totale in quello che stai facendo", ed era probabilmente la stessa cosa. Essere totali è "il miglior lavoro di cui siamo capaci".

Ed elli a me: questa montagna è tale,
che sempre al cominciar di sotto è grave;
e quant'om più va sù, e men fa male.

mercoledì 22 aprile 2015

Gurdjieff a Roma


In Incontri con uomini straordinari Gurdjieff racconta di essere stato a Roma in gioventù. Non avendo soldi, avrebbe cominciato a fare il lustrascarpe con scarso successo, fino a quando non aggiunse un fonografo Edison e altri ammennicoli alla poltrona dei clienti, per intrattenerli. Grazie a essi, il successo non si fece più aspettare.

L'episodio marginale non ha ricevuto molte attenzioni. James Moore lo considera verosimile, collocandolo intorno al 1890. L'associazione La Teca gli ha dedicato la copertina di settembre 2010 della sua rivista e un articolo a firma di Michele Pirolo. Questo articolo aggiunge al racconto dettagli presi da chissà dove (l'ambientazione a Via Veneto, la presenza di una nutrita concorrenza) e un errore, quando dice che "sicuramente" Gurdjieff tornò in Italia nell'agosto 1949 per partecipare a una conferenza a San Remo con la dottoressa Montessori. Vi partecipò invece Bennett, che poi avrebbe ragguagliato Gurdjieff in un caffé parigino. A parte questo, anche Michele Pirolo sembra credere alla storicità del soggiorno romano di Gurdjieff.

Le fonti sono scarse (di fatto, si riducono a Incontri con uomini straordinari), per cui è impossibile trovare riscontri. Nella sua autobiografia, Bennett scrive che Gurdjieff amava improvvisare racconti simbolici, come quando raccontò l'aspetto del suo futuro chateau, negli ultimi mesi di vita. Un architetto lo prese sul serio e cominciò a parlare di artigiani che avrebbero potuto decorarlo. Gurdjieff lo apostrofò così: "Idiota! Nessun artista può fare come io necessito". Per Bennett, "era evidente a tutti coloro che conoscevano il suo idioma" che l'intera descrizione della nuova casa gurdjieffiana simboleggiava il suo Sistema.

Anche il presunto soggiorno romano di Gurdjieff potrebbe essere una metafora. In tal caso, occorre chiedersi cosa può significare, nella città del Papa, che un maestro spirituale inventi un nuovo, redditizio modo di lustrare le scarpe. È possibile che Gurdjieff, "tosatore di idioti", vedesse il suo Lavoro (anche) come una sorta di costosa lustratina di scarpe per "nullafacenti vanitosi", sottratti ai lustrascarpe (romani) che l'avevano preceduto?  Forse che il Maestro armeno ci sta dicendo che la sua ingegnosità sottraeva pecore al gregge del cattolicesimo romano? 

La mia risposta: sì, è possibile. 


Ed elli a me: Questa montagna è tale,
che sempre al cominciar di sotto è grave;
e quant'om più va su, e men fa male.


martedì 21 aprile 2015

Russell Page, giardiniere dell'anima

Giardini della Landriana, Roma


Il 7 novembre 1949, dopo il funerale di Gurdjieff, gli studenti di Quarta Via si ritrovarono nella sua camera per leggere le opere del Sistema. Chi sedette alla poltrona del Maestro fu Russell Page, lo studente che era solito leggere ad alta voce per tutti.

All'epoca, Page aveva già svolto dei lavori importanti come progettista di giardini, ma non era ancora diventato il numero uno al mondo. In quei momenti, era "solo" il genero di Gurdjieff e uno degli studenti che gli era stato più vicino negli ultimi mesi.

Le fonti sui rapporti tra Russell Page e la Quarta Via sono scarse. Non ve n'è traccia nell'unico libro da lui scritto, L'educazione di un giardiniere; la sua biografia The Gardens of Russell Page vi accenna di sfuggita; i testi della Quarta Via sono ancora più avari di informazioni. Anzi: James Moore, autore di una celebre biografia di Gurdjieff, interrompe una citazione da Idioti a Parigi proprio laddove si fa il nome di Page. Lo stesso Moore si dilunga invece su celebrità che hanno avuto una frequentazione minima di Gurdjieff, come S.D. Mercourov e Frank Lloyd Wright.

Questo fatto è tanto più strano se leggiamo una delle poche fonti a disposizione sull'argomento, per l'appunto Idioti a Parigi. Page vi appare come una delle pochissime persone capaci di aiutare Gurdjieff in cucina e di scherzare con lui. Il giorno prima di venire ricoverato nell'ospedale in cui sarebbe morto, Gurdjieff lo mandò a chiamare per prendere un caffè e ascoltare musica insieme. Tra il Maestro che aveva segnato la spiritualità del XX secolo e colui che stava per diventare il più famoso giardiniere del mondo, c'era dunque un rapporto stretto. Il primo aiutava a creare anime, il secondo giardini, e le due cose forse non erano così distanti. 

Il giardino ideale di Russell Page consisteva nell'hortus conclusus, ovvero il chiostro, la metafora del paradiso in terra. Scriveva il giardiniere inglese: "Lo scopo dell'ideatore di giardini ... è di indurre a credere in un paradiso che nasce dagli elementi già presenti sul luogo ... e dar sfogo al proprio amore per la natura offrendo a ciascuna pianta le migliori condizioni possibili per il suo sviluppo". E ancora: "Per avere il pollice verde, è necessario avere un cuore verde. Un giardino ben fatto non è certo il prodotto di qualcuno che non abbia sviluppato la capacità di conoscere e amare gli esseri viventi".

Un'altra fonte di informazioni su Page è il bel libro di Marella Agnelli Ho coltivato il mio giardino. Page, infatti, era al servizio delle famiglie più ricche del mondo: per gli Agnelli, progettò i parchi di Villar Perosa e Villa Frescot, oltre che il giardino pensile della casa sul Quirinale. Il giardiniere inglese si conquistò la fiducia di Marella Agnelli, moglie di Gianni, non tanto per "la monumentale fisicità" ("Era un gigante") o per lo "straordinario sesto senso" in fatto di giardini, quanto per la sua spiritualità. "Quella splendida sera di giugno ... passammo nella loggia a vedere il giardino dall'alto, nel tramonto ... Fu allora che Russell mi mise in guardia dal lato oscuro di una grande fortuna. Per non restarne ingabbiati, mi disse, 'Bisogna imparare a essere servitori di qualcosa di più elevato, altrimenti si diventa schiavi di tutto ciò che è in basso'." Da allora (1954) Page lavorò per gli Agnelli fino alla morte (1985). La sua compagnia faceva la felicità di Marella.

La moglie di Gianni Agnelli rivela altri dettagli: "Un giorno gli chiesi come mai guadagnasse così poco e lui mi rispose: 'Perché voglio essere io a scegliere i miei committenti e non il contrario'. Ed era vero. Lavorava solo per persone che stimava". Non aveva assistenti, la sua casa-ufficio era spartana e conduceva una vita quasi monastica. Del resto, come racconta lui stesso ne L'educazione di un giardiniere, lavorava così tanto che passava quattro notti a settimana in treno.

La succinta cronologia di The Gardens of Russell Page indica il 1946 come anno in cui conobbe Gurdjieff. Pochi mesi dopo ne sposò la figlia Linda, dalla quale avrebbe divorziato nel 1954. Quello stesso anno si risposò con Vera Daumal, vedova dello scrittore René Daumal, entrambi studenti di Gurdjieff. Vera sarebbe morta nel 1962.

Sembra che Page negli anni Sessanta fu tra quanti considerarono conclusa l'esperienza della Quarta Via e passarono al sufismo, riconoscendo in Idries Shah il proprio Maestro. Ma se poco si sa del suo studentato in Quarta Via, ancora meno è dato leggere del suo percorso sufi. Quando l'architetto Pejrone, suo successore in casa Agnelli, gli chiese di raccontargli qualcosa del sufismo, Page tagliò corto: "Tu non sei il tipo adatto".

In Italia, oltre che i giardini degli Agnelli, Page creò, tra gli altri, i giardini della Mortella a Ischia e quelli della Landriana vicino Roma, entrambi visitabili.

Ecco alcune sue frasi tratte da L'educazione di un giardiniere: "[Un giardino deve] mutare e interrompere il flusso del tempo, trasformandosi in un'isola dove l'istante acquista un nuovo significato"; "Quelli che noi chiamiamo vuoti sono solidi di altro genere"; "L'architettura di giardini deve avere il pregio della discrezione sopra ogni altra cosa"; "La domanda che mi pongo sempre nel confrontarmi con un giardino suona così: 'Come posso contenere al minimo il mio intervento?'".

Page, "Idiota Circolare", non studiò mai giardinaggio, ma studiò con Gurdjieff. Per qualche scherzo della sorte questo fatto continua a essere poco noto. La discrezione e il Vuoto non erano solo qualità dei suoi giardini: costituivano anche tratti della sua anima.

Ed elli a me: Questa montagna è tale,
che sempre al cominciar di sotto è grave;
e quant'om più va sù, e men fa male.

lunedì 20 aprile 2015

I lunedì della poesia - Haiku II

Ascolta le onde
come un tempo le foglie,
il tronco in spiaggia.

Bosco d'autunno:
ti scrittura un angelo
come regista


Eppure non fa
che levarmi il fiato:
aria dei boschi

Il cielo pieno
Di uccelli - io respiro
La loro casa

Dentro al lago
sfogliano calendari
la nube e il cielo

Candido cielo
prende appunti dentro
i miei occhi

Forse all'alba
la terra sogna ancora
negli uccelli

Esattamente
quello che sta avvenendo
qui e ora: l'haiku

Ed elli a me: Questa montagna è tale,
che sempre al cominciar di sotto è grave;
e quant'om più va sù, e men fa male.

domenica 19 aprile 2015

Idioti parigini


Idioti a Parigi è un libro uscito per le edizioni Mediterranee nel 1996. Contiene i diari personali di John ed Elizabeth Bennett durante il loro soggiorno parigino in compagnia di Gurdjieff, nell'estate del 1949.

Quando Elizabeth Bennett decise di pubblicare questi diari, nel mondo anglossassone l'autobiografia di John Bennet era già uscita da trenta anni: ciò rendeva Idiots in Paris più comprensibile al lettore inglese. In Italia è successo l'incontrario: Witness, l'autobiografia di JG Bennett, è uscito venti anni dopo Idioti a Parigi: ovvero, per due decadi buone parti di quest'ultimo siano rimaste indecifrabili al lettore italiano.

Elizabeth Bennett sapeva che era necessario fornire un minimo di contesto a quei diari privati: detestando le note a pie' di pagina, optò per una prefazione esplicativa. Qui è dove Idioti a Parigi può aiutare a capire Witness.

Scrive Elizabeth Bennett del marito: "[Egli era] così sicuro di sapere come lavorare, così cieco alle opportunità di fronte a lui, così privo di humour, così convinto che la forza - fisica, mentale e morale - lo avrebbe portato alle soglie del paradiso! In quel mese di agosto 1949 era ossessionato da se stesso e dai suoi stati soggettivi".

Per capire cosa stava succedendo, abbiamo bisogno sia di Witness che di Idioti a Parigi. Dal primo, sappiamo che da anni Bennett era rimasto senza guida nel Lavoro: dopo la partenza degli Ouspensky per l'America, scoprire che Gurdjieff era ancora vivo a Parigi fu un miracolo. Dal secondo, sappiamo cosa Bennett si era messo a fare da solo, anche se non tanto dai suoi appunti, quanto dai commenti di Gurdjieff e dalle osservazioni di Elizabeth.

Gli diceva infatti Gurdjieff: "Lei lavora troppo duramente. Questi risultati possono essere molto dannosi. Meglio non lavorare così faticosamente. Se non ci fossi qui io, lei non sarebbe in grado di tornare indietro. Finirebbe diritto in manicomio".

Nel 1923, al Prieuré di Gurdjieff, Bennett aveva dei fatto dei supersforzi che lo avevano portato a un'esperienza di risveglio. Venticinque anni dopo egli, rimasto senza Maestri, cercava con supersforzi solitari di ottenere lo stesso risultato. A detta di Gurdjieff, questi supersforzi in solitudine lo rendevano il candidato perfetto per un manicomio.

Affiora qui una lezione già nota, ma sempre valida: il Maestro e la comunità offrono protezione, gli sforzi solitari rischiano di essere dannosi. In verità, già la presenza della moglie proteggeva JG Bennett da se stesso, ma poiché Bennett non l'ascoltava, era necessario che parlasse Gurdjieff.

Per chiudere con le parole di Elizabeth Bennett: "Quel mese [con Gurdjieff] fu il punto di svolta per lui. La sua tolleranza, umiltà e amore - la sua profonda comprensione - così facile a vedersi alla fine della sua vita, cominciò a emergere durante le visite a Gurdjieff riportate in questo libro. Quelli di noi - così tanti di noi - che hanno beneficiato dei suoi ultimi insegnamenti dovrebbero ringraziare non soltanto JG Bennett, ma soprattutto il suo Maestro, Gurdjieff".


Ed elli a me: Questa montagna è tale,
che sempre al cominciar di sotto è grave;
e quant'om più va su, e men fa male. 


venerdì 17 aprile 2015

Castaneda e W.P. Patterson


William Patrick Patterson è noto al pubblico italiano come autore di Gurdjieff e le donne della cordata, un libro interessante soprattutto per gli studenti di Quarta Via. Un altro libro di Patterson, non ancora tradotto in italiano, è The Life and Teachings of Carlos Castaneda, che esplora i rapporti tra Carlos Castaneda e la Quarta Via. In Rete l’opera si trova descritta come la più completa sull’argomento.

La tesi dell’autore, che l’opera di Castaneda derivi almeno in parte dagli insegnamenti di Gurdjieff, non convince del tutto. Le analogie non sono tali da sciogliere ogni dubbio e un episodio come la partecipazione di Castaneda a un seminario di Movimenti di Gurdjieff (un weekend del 1971) non appare risolutivo. Ugualmente non determinante è la presunta provenienza dalla Quarta Via di una delle “streghe” della sua cerchia, Carol Tiggs. L’idea-base, che Castaneda avrebbe chiamato in altro modo ciò che era stato detto da Gurdjieff (“La mente reale è il centro intellettuale superiore”, “L’Aquila è la luna”, “L’Intento è lo sviluppo della vera volontà” ecc.), potrebbe applicarsi ad altre filosofie, come quella buddhista, con gli stessi risultati.

Qua e là c’è qualche omissione o dimenticanza. A esempio, non viene detto che Castaneda riconosceva tranquillamente di aver frequentato vari insegnanti negli anni Settanta, senza però trovarne nessuno di proprio gradimento. Nella cronologia finale, tra le tante interviste, manca quella concessa al Corriere della Sera nel 1997 e i rapporti con Fellini furono più ricchi e complessi di quelli che Patterson mostra di conoscere.

Un limite di Patterson è poi nelle fonti. Queste sono soprattutto ex studenti di Castaneda o comunque persone dall'atteggiamento negativo verso quest’ultimo. Da studioso qual è, Patterson non può ignorare che l’iniziatore della tradizione di cui fa parte, Georges Gurdjieff, fu e continua a essere oggetto di negatività. Non sembra però che egli abbia mai presentato il Maestro armeno esclusivamente attraverso Guenon, Pauwels o altre fonti negative. Singolare, dunque, che tale trattamento venga riservato a Castaneda. 

In realtà, l'uso di due pesi e due misure in campo spirituale non è una novità. Quando un Maestro viene attaccato, i suoi discepoli tendono a riprodurre gli stessi attacchi verso altri Maestri. Già i cristiani dei primi secoli da perseguitati si trasformarono velocemente in persecutori. William Patrick Patterson sembra un autore valido quando parla di ciò che gli compete, ma allorché esce dal piccolo gruppo di cui fa parte, rischia di non essere altrettanto interessante.

Ed elli a me: Questa montagna è tale,
che sempre al cominciar di sotto è grave;
e quan'om più va sù, e men fa male.

giovedì 16 aprile 2015

L'arte di rubare



Quello è il diavolo. Ti ruba l’anima se lo guardi” (da un libro di Carlo Lucarelli).

Il problema di noi esseri umani è che non sappiamo reggere il furto dell’anima. Lo slogan di un pubblicitario, il titolo a effetto di un giornalista, l’annuncio sensazionale di un politico: l’uomo non sa ribattere colpo su colpo al furto dell’anima, ricordando se stesso contro chi vorrebbe catturargli tutta l'attenzione.

Forse potremmo provare a reagire diventando ladri a nostra volta, nel senso gurdjieffiano:

Quello che ho da dare non può essere pagato, non ha prezzo. Quindi, se ne hai bisogno, lo devi rubare”.

Ecco una delle frasi più enigmatiche del Maestro armeno. Cosa voleva dire esattamente Gurdjieff?

Noi siamo circondati da ladri: pubblicitari che fanno sorgere in noi desideri non necessari, giornalisti che vogliono convincerci di non potere fare a meno delle loro notizie, politici che sostengono di avere la chiave della nostra felicità. Vengono poi quanti ci danno una cosa con la mano sinistra, solo per levarcela con la destra. Esistono Maestri che al mattino ci danno quello che a sera, per altre vie, provano a levarci. Forse questo è solo un modo di rafforzare il dono del mattino: il punto sta nel superare la prova serale, sopravvivere al passaggio del ladro. Quanti di noi non hanno meditato in una sala che a sera si è trasformata in una discoteca frequentata da persone... in cerca di compagnia? Per quanto strano possa sembrare, questo può essere un modo di rendere più stabili le conquiste spirituali. Se una cosa ci è arrivata senza che fossimo pronti, è naturale che ci venga portata via la sera stessa. Come tecnica pedagogica è degna di un ladro - ne ha tutta la crudità e la spietatezza - ma può funzionare.

Torniamo all’arte gurdjieffiana del furto. Una dimensione di essa è che non sempre si possono rispettare le regole. Ci sono momenti e situazioni in cui anziché essere inerti e passivi, bisogna avere il coraggio di trasgredire. Il dio dei ladri è Hermes, dotato di ali ai piedi: se il ladro è per definizione veloce, chi vuole sopravvivergli dovrà essere almeno altrettanto veloce. A sera dobbiamo avere già capito come difendere ciò che abbiamo ricevuto al mattino.

Esiste una legge: nel mondo dello spirito le cose non procedono per inerzia. Nulla è acquisito per sempre, ogni conquista va difesa. Contrastare con velocità un ladro vuol dire fermarlo subito: l’ottava discendente ha il suo primo intervallo immediatamente, al DO-SI. Se lasciamo che raggiunga il LA, la discesa avverrà senza ostacoli sino al FA.

Sembrerebbe che certi Maestri, o le Forze Superiori, desiderino da noi l’intelligenza e la scaltrezza dei ladri. Il mondo che ci circonda è la selva oscura dove tutto rafforza lo stato di sonno: rosicchiarvi un po’ di presenza è come compiere un furto ai suoi danni, violare “le 48 leggi” a cui l’uomo addormentato è sottoposto. Essere consapevoli, diventare presenti, è un furto contro il nostro destino di macchine addormentate.

Per parafrasare la citazione iniziale: l’uomo inconsapevole viene derubato dal mondo della sua anima; l’anima che cerca di risvegliarsi deruba il mondo della sua meccanicità.

Ed elli a me: Questa montagna è tale,
che sempre al cominciar di sotto è grave;
e quant'om più va sù, e men fa male.

mercoledì 15 aprile 2015

L'haiku



Gli haiku sono come i mandala: destinati a scomparire. Non durano. Ogni settimana, nelle riviste specializzate si pubblicano splendidi haiku che dopo poco tempo nessuno ricorda. Come i mandala, gli haiku non possono fare ego nel poeta. Si autodissolvono.

Cosa resta degli haiku di dieci anni fa? Oggi le riviste specializzate esistono solo in formato digitale: che ne sarà tra dieci anni? Si tramandano solo gli haiku degli scrittori più noti: Margherita Guidacci, Tomas Transtromer.

L'haiku è figlio del momento: passato il momento, passano anche gli haiku.

Di fatto, la forma stessa dell'haiku spinge lo scrittore verso il nulla. Egli deve farsi sempre più essenziale, fino a ridursi a diciassette sillabe. In un haiku, il non-detto è più del detto; in un libro di haiku, il rapporto pagina bianca/pagina scritta è di nove a uno. L’intelligenza del lettore di haiku si deve tendere sino a colmare i vuoti, udire i silenzi.

L’haijin, il poeta di haiku, riduce al silenzio tutto ciò che non è indispensabile: suo scopo è far apparire la porta stretta (e breve) che mette in collegamento due mondi. Gran parte del lavoro dell’haijin consiste nell'eliminare.

L’haiku è quella forma di poesia che aumenta con il non-detto, viene migliorata da ciò che è lasciato fuori. È come un altro modo di respirare: del respiro ha la misura breve, la concretezza e il fatto che può esistere contemporaneamente su due piani, materiale e spirituale.

L’haiku lascia che sia il lettore a coprire la distanza che lo separa dal poeta. Come in tante opere dello Spirito, questo genere letterario richiede uno sforzo superiore alla media. “Ciò che conta non è leggere, ma rileggere”, insegnava Borges. Il colpo d’ali richiesto al lettore lo aiuta ad avvicinarsi all’esperienza generatrice dell’haiku.

Ouspensky sosteneva che gli stati elevati di consapevolezza sono momentanei: se durassero, potremmo star certi che sono frutto di immaginazione, perché ora come ora non abbiamo l’energia sufficiente per sostenere la consapevolezza prolungata. L’haiku è lo stato elevato di consapevolezza così come ci appare più spesso: fulmineo e incantevole.

(C’è una buona notizia: Ouspensky aggiunse che continuando a Lavorare, gli stati di consapevolezza sarebbero diventati più frequenti, profondi e duraturi. Ergo, anche gli haiku emergeranno da uno spazio sempre più profondo e lasceranno una scia sempre più duratura.)

Ed elli a me: Questa montagna è tale,
che sempre al cominciar di sotto è grave;
e quant'om più va sù, e men fa male.

martedì 14 aprile 2015

JG Bennett, testimone dell'imperscrutabile II



Nel 1956, a sessanta anni, John Godolphin Bennett si abbandona nelle braccia del Tutto. “Chiudi gli occhi. Vi è solo Dio. Fa’ quello che vuoi” è la nuova Via, il Subud o Latihan. Tutto ciò che era stato appreso da Gurdjieff si riconfigura in nuova forma. Prima, ogni cosa era sforzo; ora, tutto sta nell’aprirsi e lasciarsi andare. Sembrerebbe una svolta di 180 gradi, ma per Bennett è solo l’approfondimento dello stesso discorso, un altro sentiero alla medesima vetta.

Benché gli amici di un tempo lo abbandonino, i primi anni sono idilliaci: tutto pare arrivare senza necessità di pagamento, il Mar Rosso è aperto e basta allungare la mano. Ancora una volta, Bennett è accanto alla fonte: il Maestro indonesiano Pak Subuh; ancora una volta, chi vive con lui condivide intensamente l’esperienza: la moglie Polly (di venti anni più grande) e l’amante Elizabeth.

Ma i conti non tornano: il Subud apre il cuore, ma non fa nulla per la forza di volontà. Non c’è più alcun lavoro su di sé, basta “aprirsi”. Il nonsforzo può funzionare nel breve, ma non nel lungo termine. "Avevo fatto affidamento sul latihan per ciò che avrei dovuto fare tramite i miei propri sforzi": dando un grosso dispiacere ai seguaci del Subud (così come aveva fatto con quelli di Gurdjieff), Bennett saluta e se ne va.

Da questo momento, la sua vita sarà una girandola di Vie e Maestri, sempre all’inseguimento dell'elusivo equilibrio tra sforzo e nonsforzo, disciplina e abbandono.

Su suggerimento dell’ultimo Maestro, Hasan Shushud (“Insistette che io fossi un «maestro» e fossi andato oltre tutti coloro che consideravo miei insegnanti”), Bennett apre una scuola tutta sua a Sherborne House. Dura appena tre anni: la morte se lo porta improvvisamente via il 13/12/1974. Nonostante gli avvertimenti di Shushud, si era sovraccaricato di lavoro e questo l’aveva stroncato, come riconobbero quanti gli stavano vicino.

Nella vita di Bennett, la bilancia sforzo/nonsforzo pendeva quasi sempre dal lato dello sforzo. Spesso egli era iperattivo ed esigeva molto da sé. Per citare il suo necrologio, Bennett esemplificava l’insegnamento di Gurdjieff secondo cui la Grazia potesse scendere sull’uomo come risultato di “lavoro cosciente e sofferenza intenzionale”. L’esperienza francese del 1923 l’aveva segnato: quello era stato l’evento fondamentale che aveva informato di sé tutti i fatti passati e futuri, “come la limatura di ferro si orienta a formare una rosa intorno a una calamita” (E. Zolla).

Qui finisce il libro che inizia da quella fine che è il mio inizio. Bennett non vi appare tanto un Maestro, quanto un messaggero di Maestri. Sorprendentemente, questo è proprio ciò che Gurdjieff gli aveva chiesto, quella fatidica sera del 1923: diventare un servitore di ciò che va oltre l'uomo. A modo suo, Bennett ha risposto alla chiamata.

Ed elli a me: Questa montagna è tale,
che sempre al cominciar di sotto è grave;
e quant'om più va sù, e men fa male.

lunedì 13 aprile 2015

I lunedì della poesia - Haiku I

Sotto al mare
la terra ha il suo ombelico -
lì s'emoziona
Tutti i bambini
che ora stanno nascendo:
queste campane
Pian piano il saggio
sostituisce i pensieri
con bianche nubi
Quando alle labbra
fioriscono le ali:
il tuo sorriso
Si sposta, il cielo
fino a toccarmi il cuore.
In gran segreto.
Che lungo viaggio
pur di brillarmi in mano
acqua del mare!
Gira una chiave
nel petto il respiro -
onda di gioia
Ore immobili
custodite al suolo
dal cielo. Pioggia.

Ed elli a me: questa montagna è tale,
che sempre al cominciar di sotto è grave,
e quant'om più va sù, e men fa male.

domenica 12 aprile 2015

Cento anni fa


Cento anni fa, forse proprio nella settimana tra il 6 e il 12 aprile 1915, Piotr Demjanovich Ouspensky incontrava Georges Ivanovitch Gurdjieff. È un incontro che ha fatto la storia come quello tra Dante e Beatrice sulle rive dell’Arno, o tra Socrate e Platone sotto i marmi dell’Acropoli.

Per l’occasione rileggiamone il racconto, al capitolo uno di Frammenti di un insegnamento sconosciuto.

Me ne ricordo molto bene…” è l’incipit quanto mai beneaugurante, poiché la Scuola di Gurdjieff è la Scuola del Ricordo. Tuttavia, già un capoverso sotto Ouspensky aggiunge: “Non ricordo l’inizio della nostra conversazione”, e alla pagina successiva “Mi è difficile ricostruire l’inizio della conversazione con gli allievi di G.”: qui Ouspensky assomiglia a tutti noi, uomini addormentati che non sappiamo bene come entriamo nelle situazioni della nostra vita. Le cose ci accadono, non siamo ancora in grado di fare

Eravamo arrivati in un piccolo caffè lontano dal centro…” Ecco l'inizio della tradizione, ancora viva dopo cento anni, di tenere gli incontri di Quarta Via in caffè o atri d’albergo.

Vi era un uomo … che mi colpì subito perché sembrava del tutto fuori posto in quel luogo e in quell’atmosfera … Quest’uomo dal viso di Rajah indiano o Sceicco arabo, produceva, in quel piccolo caffè di bottegai e rappresentanti … l’impressione inattesa, strana e quasi allarmante di un uomo … che non è ciò che pretende di essere.” Gurdjieff è in un ambiente antitetico al suo essere e il contrasto genera energia. Ouspensky comincia ad avvertire che davanti a lui è in atto qualcosa di insolito: una persona si mette volontariamente in una situazione di attrito, perché quest’ultimo alimenta il suo lavoro interiore.

G. parlava un russo scorretto con un forte accento caucasico, e quell’accento, al quale siamo abituati ad associare qualsiasi cosa eccetto che idee filosofiche, rafforzava ancora la stranezza e il carattere sorprendente di quella impressione.” Non solo Gurdjieff è in un presente inatteso: anche il suo passato è sorprendente. Si intuisce che per arrivare lì dove è ha compiuto una lunga strada, costellata di attriti trasformati in carburante per qualche processo interiore.

“… Mi parve che mettesse in ogni risposta molto più di quanto gli chiedessi. Mi piaceva il suo modo di parlare che era, a un tempo, prudente e preciso.” Tutto l’incontro è all’insegna dell’equilibrio tra gli opposti, dell’elettricità tra i contrari. Gurdjieff è un rajah in un caffè di bottegai, parla di filosofia con una lingua da mafioso, si esprime in modo generoso e riservato. Ouspensky è magnetizzato.

Non lo capivo bene.” Eppure, in un certo senso, Ouspensky capì benissimo, tant’è che alla fine dell’incontro si rese conto di dover chiedere subito un altro appuntamento, altrimenti rischiava di “perdere ogni contatto con lui”. La vera comunicazione tra Ouspensky e Gurdjieff stava avvenendo oltre le parole, a livello sottile. I discorsi erano solo un pretesto.

Tutto quanto G. aveva detto mi aveva profondamente interessato. C’erano, lo sentivo, punti di vista nuovi, diversi da tutto quanto avevo incontrato fino a quel giorno.” Ouspensky non era l’ultimo arrivato, ma un conferenziere e uno scrittore di successo, proprio sui temi dell’esoterismo. Conosceva bene l’ambiente, e se ci dice che quei discorsi suonavano assolutamente nuovi nel 1915, possiamo credergli: dopo cento anni, producono lo stesso effetto.

I due prendono una vettura e si recano in un appartamento, secondo Gurdjieff, lussuoso e costosissimo; secondo Ouspensky, di proprietà comunale, disadorno e dato in affitto gratuitamente. “C’era qualcosa di così singolare in questo bluff troppo scoperto che io pensai subito dovesse avere un significato particolare.” Il camuffamento prosegue. Tra le apparenze e la realtà, i fatti e le parole, c’è una distanza in cui l’uomo ordinario rischia di smarrirsi. Urge trovare punti di riferimento e attenervisi: anche il discepolo deve cominciare a essere attivo, o il suo apprendistato si è già concluso.

Le impressioni contrastanti aumentano. Nello stanzone comunale ci sono altri studenti di Gurdjieff, ma: “Gli allievi non potevano competere con il maestro. Appartenevano tutti a quel particolare ambiente piuttosto povero dell’«intellighenzia» moscovita … dal quale non potevo aspettarmi nulla di interessante”. Gurdjieff, dopo aver mostrato la parte positiva dell’Insegnamento (lui stesso, con la sua energia), sottopone l’aspirante allievo alle prime prove: ostacoli da superare per cominciare a meritarsi l’Insegnamento stesso.

Sentivo in loro qualcosa di calcolato e artificiale, come se recitassero una parte imparata in precedenza.” Un’altra tradizione di Quarta Via.

G. non rispose nulla e la conversazione si interruppe. Ma io avevo subito sentito in G. qualcosa di straordinario, e man mano che la serata avanzava, quell’impressione non aveva fatto che rafforzarsi.” Ouspensky è ora lasciato solo a se stesso: deve trovare al proprio interno le ragioni per continuare a frequentare Gurdjieff. D’altra parte, anche nel silenzio prosegue la trasmissione tra Maestro e discepolo.

E qualcosa effettivamente è cambiato: per la buona sorte di centinaia di migliaia di persone, Ouspensky capisce in un lampo che al momento del commiato deve ottenere un altro incontro, o potrebbe non vedere più Gurdjieff. "L’indomani, stesso posto, stessa ora", è la risposta di Gurdjieff. Sottinteso: bisogna cominciare a essere regolari e continuativi nei propri sforzi.

Poi Ouspensky se ne va con un giovane studente di Gurdjieff. Ha la tentazione di fare una battuta stupida, ma si trattiene: la camminata tra i due avviene in silenzio e ciò depone a favore di entrambi. Con questo esempio di proficua continenza, si conclude il resoconto di quel giorno di cento anni fa. La sua onda lunga ancora trasforma uomini e donne di tutti i continenti.

Ed elli a me: Questa montagna è tale,
 che sempre al cominciar di sotto è grave;
e quant'om più va sù, e men fa male.