domenica 29 marzo 2015

Pausa



Come da foto, questo blog va in ritiro e sospende le pubblicazioni fino a dopo Pasqua.

Felice Resurrezione a tutti!

O voi ch'avete l'intelletti sani,
mirate la dottrina che s'asconde
sotto 'l velame de li versi strani.

venerdì 27 marzo 2015

Lo sforzo sbagliato



In passato ho scritto dello sforzo giusto. Ora mi sento stimolato a scrivere dello sforzo sbagliato e con sorpresa scopro che è più difficile.

Ci sono sforzi che a tutta prima sembrerebbero davvero sbagliati. Cocciuti, testardi, rischiosi per il corpo, impossibili... Eppure, in qualche caso, sforzi del genere si sono trasformati in esperienze di Risveglio. A esempio, per Charles S. Nott e John G. Bennett, che ne hanno parlato in due bei libri.

Entrambi si trovavano al Prieuré, il castello rinascimentale vicino Parigi dove Gurdjieff aveva creato il suo Istituto. Lì svolsero dei supersforzi che portarono allo stremo il corpo, ma a un certo punto qualcosa si ruppe e loro ebbero accesso a un livello di energia mai prima sperimentato. Al riguardo, Bennett scrisse: "Ora stavo vivendo nell'eternità, eppure non avevo perso la mia presa sul tempo".

Bisogna dunque andarci cauti prima di definire sbagliato uno sforzo, perché l'imprevedibile epilogo può essere "il giorno più importante della mia vita", sempre per citare Bennett. 

Anche così, però, c'è forse qualcosa che si può dire sugli sforzi sbagliati.

Nott e Bennett facevano parte della comunità di Gurdjieff, vivevano dunque nel suo “Buddhafield” (il campo d’energia di un Buddha), avrebbe chiosato Osho. La presenza di una comunità è di per sé protettiva, ma quel che più conta è che i due svolgevano il loro supersforzo monitorati da Gurdjieff in persona. Bennett riferisce che, negli istanti di più lancinante sofferenza, sentiva tutta l’attenzione di Gurdjieff su di sé.

Mettersi a fare supersforzi del genere in solitudine, al di fuori di una Scuola e dell'energia di un Maestro, potrebbe essere sbagliato. Parlo esclusivamente in base alla mia modesta esperienza: quando faccio sforzi da solo, li faccio... come piace a me, probabilmente interrompendoli a metà, oppure adattandoli ai miei comodi. La verità è che da solo non ho mai lavorato con l'intensità di un Nott o un Bennett sotto gli occhi di Gurdjieff, e la cosa non sorprende, in quanto il Maestro armeno l'aveva previsto già cento anni fa. 

"L'uomo è veramente troppo pigro. Farà quasi tutto senza l'intensità necessaria, o non farà nulla, immaginando di fare qualcosa ... Mai da solo riuscirà a raggiungere l'intensità voluta ... Se un uomo si impone un compito qualsiasi, molto presto comincia a essere indulgente verso se stesso." (Gurdjieff)

Sospetto però che a Lavorare con tale intensità da soli, i risultati potrebbero non essere positivi. Una volta, Gurdjieff ammonì che Lavorando nel modo sbagliato, si rischiava di diventare dei lunatici.

Insomma, "La vita è reale solo quando 'io sono'"... sì, ma con gli altri.

Per fortuna e purtroppo non posso dire molto altro sugli sforzi sbagliati. Per fortuna, perché avendo deciso di parlare solo di ciò che conosco per esperienza, non posso dire nulla a esempio delle droghe (che secondo alcuni danneggerebbero in modo irreparabile il corpo astrale). Purtroppo, perché se sto facendo sforzi inutili o che alimentano la parte sbagliata in me... per questo stesso fatto, sono probabilmente l'unico a non saperlo.

O voi che avete l'intelletti sani,
mirate la dottrina che s'asconde
sotto 'l velame de li versi strani.

giovedì 26 marzo 2015

Odissea


Desidero che un uomo abbia una comprensione tale di questo Sistema, che anche se lui venisse piegato, curvato e distorto in mille modi, continuerebbe a puntare nella stessa direzione.” Gurdjieff

Ulisse è l’uomo che ovunque si trovi, qualsiasi cosa gli accada, non perde di vista il suo scopo. Innumerevoli sono le distrazioni che incontra sul cammino, positive e negative. Tra queste ultime, Polifemo e Circe; tra le prime, la ninfa Calipso. L’isola di Calipso, Ogigia, è un paradiso in terra; la spelonca di Polifemo, un inferno: né l’una né l’altra riescono però a far desistere Ulisse dalla sua meta ultima, Itaca.

In questo, Ulisse è l’anti-Pinocchio. Il burattino Pinocchio non riesce a portare a termine nessuna delle sue decisioni: ogni volta che comincia a fare qualcosa, ode il richiamo di un piffero che lo porta in un’altra direzione. È così che le sue disgrazie si sommano l’una all’altra, portando alla rovina anche il padre Geppetto. Il burattino è colui che è mosso da fili esterni: pensa di decidere, in realtà non sta decidendo nulla.

Nessuno fa ciò che intende fare, né sa ciò che sta facendo”: questa frase di J.G. Bennett, un classico enunciato di Quarta Via, si applica molto bene a Pinocchio e a tutti i compagni di Ulisse, che si perdono tra frutti di loto e tori sacri a Zeus. Ulisse è l’unico che riesce ad arrivare a Itaca; parafrasando la citazione iniziale di Gurdjieff,  egli ha compreso il Sistema e non devia dallo scopo, qualunque cosa accada. Come fa? Intanto è paziente: “La pazienza è madre della volontà, e se non avete una madre come potrete mai nascere?”, è una frase che Gurdjieff disse a Bennett. In Sicilia, Ulisse è l’unico che ha la pazienza necessaria a non mangiare le vacche sacre a Zeus. Per il resto… ne ho già parlato in un precedente articolo, quindi non mi ripeto.

In quel precedente articolo c’era però una cosa che avevo lasciato in sospeso e ora desidero chiudere. Quando feci il mio personale viaggio a Itaca insieme ad Amici del Lavoro, l’approdo a Itaca avvenne in una spiaggia un po’ particolare. Oltre una striscia di sassi che costringevano a camminare con grande attenzione, c’era infatti un vecchio, romantico cimitero dell’Ottocento, dalle tombe ricoperte di fiori. Tutte le peripezie di quel viaggio tormentato avevano trovato senso in quella visione: l’arrivo a Itaca – il ritorno a casa – altro non era che… la morte.

O voi che avete l'intelletti sani,
mirate la dottrina che s'asconde
sotto 'l velame de li versi strani.

mercoledì 25 marzo 2015

Cielo aperto



"Lo sguardo si posi su un'estensione di terreno priva di alberi, montagne, muri ecc. Quando la mente è fissa in ciò, i pensieri fluttuanti si dissolvono" (Vigyana Bhairava Tantra, versetto 60).

Riposare lo sguardo su uno spazio ampio e privo di oggetti è cibo per l'anima. In città è difficile. C'è chi arriva a chiudersi in una stanza buia per ore - giorni - nel tentativo di rilassare lo sguardo in uno spazio illimitato.
Può capitare di sentirsi dilatati all'infinito anche guardando o ascoltando determinate persone: Maestri che evidentemente sono riusciti a "fare spazio" dentro di sé.
Il silenzio assoluto è un'altra forma di riposo dei sensi, esperienza rinvigorente di cui in realtà abbiamo assoluto bisogno, anche se spesso non lo sappiamo.

Nelle città, è fondamentale poter alzare gli occhi e ritrovare sopra la nostra testa un frammento d'infinito. Guardare il cielo funziona sempre: l'anima ricorda se stessa.
Per questo mi spaventa l'attuale tendenza (per esempio, a Roma) a riportare il tram nei centri storici. L'aggressione dei ganci alle facciate antiche, il viluppo dei fili tra noi e il cielo, il permanente aspetto disordinato che assumono le strade: tutto questo ci leva una possibilità di godere dell'infinito all'interno del nostro quotidiano. Sembrava ormai pacifico che i tram nelle città antiche costituissero "inquinamento visivo", ma ora si sente parlare di progetti a grande scala per il loro ripristino.

In alcune città lo smantellamento della rete tranviaria non è mai avvenuto e i loro abitanti li considerano normali. Il velo dell'abitudine non permette di realizzare quanto stanno perdendo: il cielo intero.

O voi che avete l'intelletti sani,
mirate la dottrina che s'asconde
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martedì 24 marzo 2015

Coincidenze, sincronicità, shock



Capita di trovarci di fronte a eventi o immagini nei quali intuiamo un significato nascosto, ma che lì per lì ci sfugge: tutto quello che possiamo fare è memorizzare il fatto o scattare una fotografia, in attesa che il destino dipani i suoi fili.

A volte la spiegazione arriva dopo poche ore, altre volte impiega anni. Nel nostro passato ci sono forse diverse sincronicità dimenticate perché la loro spiegazione si è fatta attendere troppo (per la nostra pazienza). Magari in questo momento stiamo ricevendo la chiave di un evento passato... che però abbiamo dimenticato. Quando invece la spiegazione arriva e vi siamo pronti, sembra che tutto si incastri e comincino a piovere altre "coincidenze" che confermano la nostra interpretazione.

La sensazione di trovarci di fronte a un significato nascosto, un'immagine che nella sua apparente semplicità ha in serbo qualcosa per noi (e solo per noi), è peculiare, misteriosa, emozionante. Se si è tra persone che Lavorano, o si sta facendo qualcosa per il Lavoro, può capitare anche più spesso. Recentemente, insieme a un Amico nel Lavoro, ho visto una grande quantità di pigne associate a volatili: sin dal primo momento abbiamo intuito che in questo accostamento di pigne e ali c'era qualcosa che non ci doveva sfuggire. Una volta capitò che l'uccello volasse dalla pigna (di bronzo) non appena ci allontanammo. La spiegazione arrivò qualche giorno dopo, tramite altre sincronicità: pigna = ghiandola pineale = terzo occhio (volo della coscienza) = Pin-occhio (in quel momento, stavamo Lavorando con la favola di Collodi).

Bene, ecco una coincidenza (o shock, come si dice in Quarta Via) che mi è appena capitata e ancora non mi spiego. Ho comprato l'autobiografia di un noto personaggio spirituale e alla pagina numero uno c'è la sua ultima foto in vita: scattata il giorno della mia nascita, stessi anno-mese-giorno (lui sarebbe morto l'indomani). Cosa vuol dire comprare un'autobiografia spirituale e vedere che comincia con la propria data di nascita? Aspetto di capirlo.

O voi che avete l'intelletti sani,
mirate la dottrina che s'asconde
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lunedì 23 marzo 2015

I lunedì della poesia - Sonetto dell'angelo 3



Quando mi parli, io sono come un campo
da cui spuntano erbette, qualcosa
che esce dai suoi confini, un lampo,
sobbalzi d'una terra che riposa.

Su me fioriscono le tue parole,
estesa pianura dentro al petto,
spighe e luccichii come mia prole,
l’acqua che cade sul mondo, di getto.

"Guarda", sussurra l’angelo, "io ti insegno
a essere discepolo degli oggetti,
il legno, il ferro, quanto ti circonda:

svaporando all’intorno con ingegno,
spaziando, entro qualcosa ti metti
che è oltre di te – una chiara, una lunga onda".

O voi che avete l'intelletti sani,
mirate la dottrina che s'asconde
sotto 'l velame de li versi strani.

domenica 22 marzo 2015

La vita di Pi



Dice lo scrittore canadese Yann Martel che il suo libro-capolavoro Vita di Pi (da cui l’omonimo film Premio Oscar) ha visto la luce al termine di una lunga fase di depressione, della quale ha rappresentato la cura. Non per niente, esso tratta di una discesa e risalita dagli inferi

Il protagonista si chiama “Piscine Molitor”, perché nelle omonime piscine parigine il padre diceva di aver trovato l’acqua più limpida del mondo. La fanciullezza di Piscine è infatti limpida come un Eden: lo zoo del padre costituisce un paradiso in cui Piscine cresce nell’abbondanza. Quest’ultima non è solo fisica (di animali, di piante, di natura), ma anche interiore: Piscine adora tutte le religioni ed è un devoto pieno di grazia che non riesce a capire le ostilità tra i vari credi.

"Era tutto normale e poi...?" "Poi la normalità è affondata."

Arriva per Piscine il momento di perdere l’Eden. Egli comincia a farsi chiamare Pi: in quella “lettera greca simile a una piccola casa con il tetto a lamiera ondulata” trova rifugio per non farsi più prendere in giro. Dal simbolo della limpidità al “numero ambiguo e irrazionale con cui gli scienziati si sforzano di interpretare l’universo”.

Il padre decide che la famiglia e lo zoo devono emigrare in Canada. Gli animali vengono rinchiusi in gabbie nella stiva di un transatlantico: si tenta di trapiantare l’Eden altrove. Una notte però il paradiso va perduto, la nave naufraga e a Pi resta una sola parte, la più scomoda, del vecchio mondo: la tigre dello zoo, con cui deve coindividere la scialuppa di salvataggio.

La tigre ha un nome umano: Richard Parker. D’altra parte, nello zoo un cartello avvertiva che l’animale più pericoloso era… uno specchio. "Ormai vivevo seduto sopra una tigre", dice il protagonista, e noi non capiamo più bene dove finisce la tigre e comincia l'uomo.

Pi (greco) riesce a venire a capo della nuova, disperata situazione. Come? Da un lato addomesticando la tigre, dall’altro dandole il cibo che non potrebbe procurarsi da sola: “Una parte di me non voleva assolutamente che Richard Parker morisse, perché allora sarei rimasto solo con la mia disperazione, che è un nemico ancora più temibile di una tigre. Era Richard Parker a darmi la volontà di vivere. Impedendomi di pensare continuamente alla mia tragica situazione, mi spingeva ad andare avanti”.

Vita di Pi è una storia spirituale mascherata. Come scrisse Elemire Zolla, le vicende spirituali “a esprimerle direttamente si discioglierebbero come una medusa tratta a riva”, per cui l'insegnamento ha la forma di una divertente favola per adulti-bambini, o di un film che tra gli altri Oscar ha vinto anche quello per gli effetti speciali.

Pi e Yann Martel sopravvivono al naufragio della loro vita perché nutrono la loro parte istintivo-animale. Anche se quest'ultima potrebbe divorarli, è meglio non lasciarla morire, altrimenti accidia e disperazione avrebbero la meglio sull'essere umano. 

"Ogni parte spiritualizzata dell'essere deve sempre mostrarsi giusta verso la parte dipendente e inconscia, e non esigere da essa più di ciò che può dare." (Gurdjieff)

Alla fine dell'opera, viene fuori una versione completamente diversa del naufragio, che smentisce tutto ciò che avevamo letto sino a quel momento. Sembra quasi che esistano due letture del mondo, quella limpida di Piscine Molitor e quella irrazionale di Pi (greco).

La prima, credibile e razionale, va bene per gli assicuratori giapponesi che nell'ultimo capitolo chiedono come mai la nave sia affondata. 

"Voi volete una storia che non vi sorprenda. Una storia che confermi quello che già sapete, che non vi faccia vedere le cose in modo più profondo o semplicemente diverso. Una storia piatta. Immobile. Solo la sterile e insipida realtà."

La seconda è la storia infinita e irrazionale di Pi (greco). È quella che abbiamo raccontato finora, dell'uomo e la tigre sulla stessa barca. 

"La ragione è stata la mia salvezza. È indispensabile quando bisogna procurarsi cibo, acqua, un riparo. La ragione è una preziosa cassetta degli attrezzi. Niente è meglio della ragione per tenere lontane le tigri. Ma se siete troppo razionali, rischiate di buttare via l'universo con l'acqua sporca."

Non ci viene detto quale delle due storie corrisponda alla realtà, ma una cosa è certa: l'insegnamento spirituale si cela solo nella seconda versione, quella irrazionale.  


O voi che avete l'intelletti sani,
mirate la dottrina che s'asconde
sotto 'l velame de li versi strani.

venerdì 20 marzo 2015

Caravaggio


Le caravaggesche cappelle romane Cerasi e Contarelli sono ricche di messaggi esoterici. Entrambe hanno da un lato una tela con una conversione (o rinascita), dall’altro la rappresentazione di un martirio. Le due tele della "rinascita" (Conversione di San Paolo e Vocazione di San Matteo) sono caratterizzate da stasi, quiete e atmosfera sospesa; le tele della morte (Martirio di San Pietro e Martirio di San Matteo), da un ambiente animalesco e disarmonico. 

Nella Conversione di San Paolo il santo, nell’attimo della visione, si è separato dall’animale che stava cavalcando fino a poco prima. Il cavallo non è però fuori controllo: uno stalliere lo tiene per la cavezza. Non ci fosse lui, il cavallo potrebbe disturbare la visione di San Paolo, o addirittura uccidere quest’ultimo: in quel momento il santo è molto vulnerabile, sdraiato com’è al suolo.


Il significato della composizione potrebbe essere che nell’attimo della luce è essenziale avere già un buon controllo dei propri centri inferiori, o della propria parte animale: altrimenti la visione potrebbe interrompersi, portandoci anche alla morte.

Per trovare un esempio di ciò, basta considerare la vita del Caravaggio: nonostante la bellezza che produsse, non aveva un buon controllo dei propri centri inferiori. Gli attacchi d’ira a cui era soggetto lo portarono a compiere un assassinio, in conseguenza del quale sarebbe morto quattro anni dopo su una spiaggia dell’Argentario, mentre inseguiva una nave con le sue ultime opere: che erano tutto ciò che avesse mai avuto, in quanto i soggetti dei suoi quadri non si erano mai trasformati in vero “possesso” interiore.

Di fronte alla Conversione di San Paolo, abbiamo il Martirio di San Pietro: una crocefissione a testa in giù. Gli studenti di Quarta Via vi scorgeranno subito una frase che Gurdjieff avrebbe detto quattro secoli dopo: la via del Lavoro è "all’indietro e a testa in giù" rispetto alla vita. 

Nella Vocazione di San Matteo, i protagonisti sono seduti a semicerchio intorno a una tavola: rappresentano le età dell’uomo, dal bambino all’anziano. Il bambino si volta verso Gesù, mentre l’anziano chino sui soldi non si accorge di nulla: è l’idea della vita biologica come processo degenerativo, od "ottava discendente". Speranza vi è solo per l’età matura (Matteo), a patto che la luce cada direttamente sul suo volto.

Il Martirio di San Matteo è la tela che più ci ricorda la legge entropica dell'universo. Parafrasando Gurdjieff, l'influsso dell'Assoluto diventa più lento e pesante man mano che ci allontaniamo dall'impulso originario. Dalla quiete della nascita (il quadro di fronte, La Vocazione), passiamo al caos assoluto del martirio.

Questi fatti esterni sono in realtà allegorie della nostra interiorità. La vita stessa, con le sue leggi, ci trascina nel caos: anche se in noi c’è una scintilla divina, con il passare del tempo si offusca e diventa sottoposta a un numero sempre maggiore di leggi. Tenerla viva è uno sforzo quotidiano.

Che l’entropia aumenti, sembra il destino dell’universo. Chiunque abbia concepito queste tele (Caravaggio o altri) prevedeva però la possibilità di una Rigenerazione, di un’inversione dell’entropia: non in questo mondo, ma nell’invisibile mano angelica che si tende verso San Matteo, nell'istante del suo pagamento estremo.

O voi che avete l'intelletti sani,
mirate la dottrina che s'asconde
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giovedì 19 marzo 2015

Pregare con il corpo


La preghiera cattolica non fu sempre statica come la vediamo oggi. A parte casi speciali come i riti dei cattolici africani o asiatici, oppure certe cerimonie dei carismatici, in passato era normale pregare facendo uso del corpo.

Secondo un anonimo medievale (1288) l’anima, “che dà il moto al corpo, è a sua volta dal corpo mossa, e talvolta tratta in estasi”: “questa forma di preghiera suscita la devozione, perché si riversa alternativamente dall’anima nel corpo e dal corpo nell’anima”.

Uno dei casi più famosi di uso del corpo durante la preghiera è quello di San Domenico. I suoi moti durante l’orazione sono riportati da alcune fonti antiche. Egli pregava disteso al suolo, braccia aperte e fronte a terra; genuflettendosi e rialzandosi di continuo, al modo dei pellegrini tibetani; eretto in piedi con le mani aperte dinanzi al petto, quasi reggendo un libro; intrecciando le dita innanzi agli occhi, oppure elevandole all’altezza delle spalle, “come per tendere le orecchie”; tendendo e aprendo al massimo braccia e mani in forma di croce, in posizione quanto più possibile eretta; protendendosi tutto verso il cielo, “in forma di saetta”, con le mani tese fortemente al di sopra del capo, ora congiunte ora aperte “quasi a ricevere qualcosa dal cielo”; “inclinato alquanto profundo” con le mani incrociate sulle ginocchia ecc.

Mentre faceva tutto questo, alternava frasi incomprensibili a pianti ed espressioni estatiche, a volte apparendo “tremendo e pieno di maestà”. Accadeva che parlava in cuor suo e nessuno poteva udirlo: “Quando era in tale stato, sembrava che il suo intelletto penetrasse il cielo e lo si vedeva tutto trasfigurato di gaudio tergersi le lacrime che scorrevano sul suo volto”. Il suo camminare era in realtà un alternarsi di passi e genuflessioni. “E con questo esempio, più col fare che col dire, insegnava ai frati.”

La casa dei domenicani a Roma è Santa Maria sopra Minerva: una delle chiese in cui sono stato più spesso, eppure non vi ho mai visto insegnamenti con tali “esempi”. In altre parti del mondo l’insegnamento religioso tramite il corpo non sarebbe strano: nel cattolicesimo degli ultimi secoli sì, ed è un peccato.

O voi che avete l'intelletti sani,
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sotto 'l velame de li versi strani.

mercoledì 18 marzo 2015

La poesia


All’inizio del Purgatorio, Dante incontra l’anima del musicista Casella. Quando quest’ultimo, su invito del poeta fiorentino, comincia a cantare, tutti (anche Virgilio) restano affascinati e dimenticano di proseguire la salita al Paradiso, finché non interviene il guardiano del Purgatorio, Catone l’Uticense, che li rimprovera perché stanno perdendo tempo.

Qui Dante sta dicendo una cosa importante per lui e tutti gli artisti: l’arte può essere un ostacolo sulla via del paradiso. In quei casi occorre un giudice severo e imparziale che riporti tutti al Lavoro su di sé. Ai piedi del Purgatorio, l’arte era stata mero intrattenimento: fine a se stessa e non volta alla ricongiunzione con Dio, essa equivaleva a una perdita di tempo.

Non c’è via più sicura per evadere dal mondo che l’arte, ma non c’è legame più sicuro col mondo che l’arte.” Goethe

Alla fine del Purgatorio (canto XXVIII), nel paradiso terrestre, ci viene detto che tutti i poeti hanno sempre parlato, senza saperlo, di quest'ultimo. C’è una circolarità in questo parlare di poesia all’inizio e alla fine del Purgatorio. Anche la poesia di Dante si è mondata: la creatura celeste (stavolta Matelda) non censura più i versi, ma spiega in cosa consiste l’autentica poesia.

La montagna del Purgatorio, ovviamente, è vasta alla base e più piccola man mano che si sale. Sulla spiaggia di partenza ci sono ancora i “diecimila io”: salendo, il loro numero decresce di cerchio in cerchio, finché nell’unico punto della vetta Dante è pronto a spiccare il balzo nel Paradiso. In cima alla Montagna Sacra il poeta si è purificato dagli “io” e in lui resta solo la Presenza.

Così la poesia di partenza, quella di Casella, era ancora la poesia degli “io”, della falsa personalità, mentre la poesia del Paradiso Terrestre parla di un nettare che sarebbe, secondo le parole angeliche, l’acqua del Lete e dell’Eunoè, i fiumi che ivi scorrono (togliendo la memoria del peccato, cioé gli "io").

In mezzo c’è spazio per la famosa dichiarazione di poetica (Canto XXIV):

E io a lui: «I’ mi son un che, quando 
Amor mi spira, noto, e a quel modo 
ch’e’ ditta dentro vo significando».     

Prima deve esserci amore, dice Dante, poi possiamo scrivere. Poiché, per citare la Quarta Via, "Non c'è vero Amore senza Presenza" (e viceversa), il senso diventa: prima occorre purificarsi dagli “io”, poi, alla fine del Purgatorio, la vera poesia ci verrà incontro. Solo così l'arte può essere pratica spirituale e non ostacolo al raggiungimento del paradiso.

Con profonda umiltà e pazienza attendere l’ora della nascita di una nuova chiarezza: questo solo significa vivere da artista … Essere artisti significa: non calcolare o contare; maturare come l’albero, che non incalza i suoi succhi e fiducioso sta nelle tempeste di primavera, senza l’ansia che dopo possa non giungere l’estate. L’estate giunge. Ma giunge solo a chi è paziente e vive come se l’eternità gli stesse innanzi, così sereno e spensierato e vasto.” Rainer Maria Rilke


O voi che avete l'intelletti sani,

mirate la dottrina che s'asconde

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martedì 17 marzo 2015

Casa, dolce casa


Recentemente ho traslocato, cambiando città dopo quaranta anni. Per l'occasione gli amici mi hanno scritto diverse cose belle. A esempio: “Ovunque tu andrai, con questo Lavoro ti sentirai sempre a casa, e pur stando nello stesso posto, sarà sempre nuovo... Così è la natura di questo Lavoro/stato, che ora è diventato più che mai una necessità di vivere, di essere”.

Basta poco per sentirsi a casa. La nostra casa può essere piccola come un respiro... o sconfinata come un respiro. Un monosillabo può riportarci a casa; aprire gli occhi, o chiuderli, può farci capire di essere stati "senza casa" fino a quel momento. Essere "fuori" o "dentro casa" è questione di una frazione di secondo. La soglia però è sempre visibile: anche se non c'è la classica "pietra di inciampo" dei templi Zen, va oltrepassata in modo rituale. Non è possibile, o non è nel corso ordinario delle cose, ritrovarci automaticamente da "fuori" a "dentro". Viceversa, basta un niente per farci "uscire": evidentemente, la pietra di inciampo è inclinata verso l'esterno. Si fatica solo a entrare.

Torniamo al respiro. Il Buddha si è illuminato con un respiro uguale a tutti gli altri: un respiro proprio come quello di questo momento. La differenza sta in ciò che "aggiungiamo" al respiro, nel modo in cui lo vivifichiamo. I Sufi vivificano il respiro con i novantanove nomi di Allah, gli esicasti con la preghiera di Gesù, altre scuole usano altre formule.

Gurdjieff diceva: ricorda te stesso sempre e dovunque. In concreto, raccomandava ai suoi studenti di sentire sempre dentro di sé: “Io sono, io sono”. Il ricordo di sé così inteso è uno dei modi per vivificare il respiro.

Quando si Lavora con ciò che è sempre disponibile, si è sempre a casa. Una volta lessi: “Home is where the heart is. 'Casa' è dove è il cuore”. Oggi non ci credo più, perché può indurre a pensare che un luogo sia meno “casa” di un altro. Extra ecclesiam nulla salus: cambiano le formule e le lingue, ma la sostanza resta la stessa. Per tanta gente ciò che conta è la "casa" - la chiesa - in cui si sta. Un Maestro di Quarta Via ha corretto quel detto inglese in: “Home is where one is present. 'Casa' è dove si è presenti”. Così ha più senso: il luogo fisico non ha importanza, perché "casa" è dove "io sono, io sono".

O voi che avete l'intelletti sani,
mirate la dottrina che s'asconde
sotto 'l velame de li versi strani. 


lunedì 16 marzo 2015

I lunedì della poesia - Mare


1
Riposa
da centomila anni
il mare
sullo stesso scoglio
Moltitudine di lamelle
che attraggono
respingono
l’infinito
Qui si accorcia
il mondo

Lido di ponente
ogni onda
è rovina
d’un infinito

«Anche da bambino
ero qui,
Tirreno,
saettavo sopra l’onda,
il mio ritratto
un continente
sporto sulle acque.”

Oggi di nuovo tu sei
un infinito
contato sulle dita di una mano
vasto schieramento
sul ciglio del nulla


2
Solo per abbracciare
questo ciottolo
l’onda
è partita
dal centro del mare
La pioggia
scende col fruscio
che fanno le cose
lungo il silenzio
Tu
nel buio della notte
senti meglio
la carezza dell’universo

O voi che avete l'intelletti sani,
mirate la dottrina che s'asconde
sotto 'l velame de li versi strani.

domenica 15 marzo 2015

La notte del purgatorio



Qualche post fa, ho parlato della prova del fuoco che Dante attraversa nel canto XXVII del Purgatorio. Subito dopo, egli fa un'altra cosa interessante: poiché sopraggiunge la notte, deve fermarsi insieme alle sue guide e aspettare che risorga il sole. Quando è buio, quando manca la luce celeste, nel Purgatorio non si avanza, ma si resta fermi.

Osho diceva spesso ai suoi discepoli, negli incontri privati: "Quando sei in uno spazio negativo, non fare assolutamente niente. Aspetta che passi". Ugualmente negli incontri privati, le cui trascrizioni sono diventate pubbliche solo recentemente, Gurdjieff disse: "Quando non hai un programma, qualsiasi cosa - per quanto stupida, folle e indegna - può governarti. Fidati soltanto del programma che avrai fatto mentre eri in uno stato speciale. La cosa più importante è fare questo programma: come vuoi comportarti, cosa vuoi fare, le relazioni che vuoi avere con gli altri. Questo è un programma. E credi solo in questo. Anche se Dio venisse a disturbarti, dicendoti di fare qualcos'altro, non credergli. Forse è venuto per metterti alla prova. Tu fai solo ciò che hai deciso nel tuo stato speciale".

Lo stato speciale è quando c'è il sole, l'aiuto celeste, perché con le nostre forze possiamo fare ben poco. D'altra parte, la notte, l'assenza del sole, è quando siamo lasciati a noi stessi: al posto del sole, i fuochi fatui degli io. Quello che tutti i Maestri ci dicono, da Dante a Osho passando per Gurdjieff, è che in questi momenti non dobbiamo prendere iniziative. Parte del programma concepito durante lo "stato speciale" è proprio questo non credere agli io.

"Esiste una legge semplicissima: un uomo deve mantenere la parola data; in tutti i casi, qualsiasi cosa accada. Se hai dato la tua parola che verrai a vedermi a una certa ora, anche se ti fanno a pezzi, anche se ti uccidono, devi venire. È una cosa piccola, ma forse è connessa a molte altre che non conosci. Se non vieni, il costo potrebbe essere un milione di franchi." (Gurdjieff)

Un'ultima cosa: quando Dante si ferma, essendo l'unico dotato di corpo fisico, si addormenta e sogna. I suoi sogni in questi casi sono sempre pedagogici. Non sono esperienze oniriche normali, ma celesti, inviate dall'alto. Anche di notte Dante impara, perché ha fatto la cosa giusta nel momento: fermarsi e non avanzare.

O voi che avete l'intelletti sani,
mirate la dottrina che s'asconde 
sotto 'l velame de li versi strani.

venerdì 13 marzo 2015

Appunti su Borges



Borges parla dell'irrazionale con linguaggio preciso, netto, senza sbavature. Manifestando distacco, egli sente di più. Solo con uno sguardo da lontano l'irrazionale si rivela in tutta la sua portata. È difficile che una frase di Borges sia più lunga di due righe. Le cose vengono qualificate con una sola parola, l'aggettivazione è ai minimi termini. Neutralità e oggettività sono espedienti per approfondire lo sgomento: se di fronte a un occhio chiaro i fatti restano illogici, l'uomo diventa impotente. Lo stile secco richiama il lessico scientifico, ma solo per ribadire l'impossibilità di ogni scienza (da scio, so, capisco). La mente arretra e il mistero si impone. Lo scienziato ha sparato tutte le sue cartucce, ora l'unica possibilità riposa in una meraviglia senza parole. 

Anche le predilezione per la forma del racconto rientra nel gusto per la concisione e l'assioma scientifico. Spesso i fatti potrebbero trovare una spiegazione ordinaria, ma anche no. Per renderci conto che esiste qualcosa che va oltre le apparenze, è necessaria più di una lettura: "L'importante non è leggere, ma rileggere".

La lingua borgesiana evita iperboli e superlativi. Le descrizioni sono brevi e chiare, eppure al lettore resta una sensazione di mistero. Quest'ultimo può essere descritto, ma non risolto. Nelle Tigri azzurre la matematica è in grado di descrivere il sovvertimento delle regole, ma non di spiegarlo.

Borges viene dalla poesia. Quelli sono i suoi esordi letterari. Ciò che ha misura contiene ciò che non l'ha, la densità suggerisce la vastità. Il meno è il più: i racconti di Borges sono poesia in forma di prosa.

O voi che avete l'intelletti sani,
mirate la dottrina che s'asconde
sotto 'l velame de li versi strani.

giovedì 12 marzo 2015

La prova del fuoco


Il canto XXVII del Purgatorio è uno dei più belli della Divina Commedia. Tra le varie cose che vi accadono, Dante raggiunge il Paradiso Terrestre dopo aver superato l’ultima prova, quella del fuoco. È necessario entrare nelle fiamme e passarvi indenni, ci dice Dante, per arrivare al Paradiso Terrestre. Ma cos’è questa prova del fuoco? Nell’opera di Dante, il superamento della lussuria. Una volta che lui, grazie all'aiuto angelico, avrà attraversato quelle fiamme senza morire, la strada al Paradiso sarà spianata.

Giocare con il fuoco, correre rischi, è qualcosa che dobbiamo fare per uscire definitivamente dal binomio Inferno-Purgatorio. In un certo senso e a un’altra scala, anche questo “diario di bordo” è un giocare con il fuoco. Usare le parole per creare la propria anima è pericoloso: il rischio è di limitarsi a moltiplicare gli “io”.

L’angelo che guida Dante ad attraversare il fuoco lo invita a non essere sordo al canto che giunge da oltre le fiamme: se il poeta orienterà la bussola su quel nord, la prova sarà superata.  
Quale può essere il canto da tenere presente mentre si usano le parole, ovvero si parla o si scrive?

Il respiro è un canto - ma solo allorché viene vivificato dalla consapevolezza, altrimenti resta rumore di sottofondo.
Lo sguardo è un canto - essere dietro ai propri occhi può non introdurre luce nell’ambiente esterno, ma la suscita in noi.
L’udito è un canto - ascoltare un altro parlare, senza avere “io” al proprio interno, è una liberazione e ci ricarica per quando dovremo essere noi a parlare.

Tenere l'attenzione su questi tre esempi di "canti" aiuta a usare le parole senza scottarsi le dita.

Il punto è avere il timone orientato sulla presenza che abbiamo sperimentato in momenti particolari. Sapremo allora che nel nostro corpo c'è un canto sommesso cui possiamo indirizzare l’orecchio interno a ogni momento, per trovare la via tra le fiamme.

Occorre un terzo orecchio: e c'è chi lo possiede fisicamente.

O voi che avete l'intelletti sani:
mirate la dottrina che s'asconde
sotto 'l velame de li versi strani.


mercoledì 11 marzo 2015

Dopo Osho, dopo Gurdjieff


"Se mai un giorno abbandonerete questo Lavoro, sarebbe meglio per voi non averlo mai cominciato, perché ciò che di buono potreste aver costruito tramite di esso potrebbe tramutarsi in qualcosa di sbagliato" Ouspensky

Per molti anni ho rimpianto di non essere nato prima e aver conosciuto personalmente Osho. Poi una sera, sul finire degli anni Novanta, in un pub romano mi imbattei in una persona che aveva vissuto molti anni con Osho: stava alzando il gomito senza ritegno e sembrava un ubriacone triste e malinconico. Eppure  era uno di quegli uomini che invidiavo: nei video di dieci anni prima appariva in estasi ai piedi del Maestro. Com’era possibile che ora sembrasse uno sbandato qualsiasi?

Qualche anno dopo, il medico di Osho disse a me e un’amica che eravamo stati fortunati ad arrivare a Pune (dove è l'ashram di Osho) dopo che il Maestro aveva lasciato il corpo: loro, la generazione di quelli che l'avevano conosciuto, erano caduti in fascinazione davanti alla sua bellezza, dimenticando di fare il lavoro necessario per reggersi sulle proprie gambe. In altre parole, finché Osho era stato in vita, quei discepoli erano “vissuti di rendita” sulla sua energia. Scomparso lui, dopo pochi anni cominciarono a manifestarsi sbandamenti simili a quello cui avevo assistito nel pub. Questo non riguardava tutti, ma il rischio c'era.

Non mi sono quindi stupito troppo quando ho visto che nel mondo di Gurdjieff era avvenuto qualcosa di simile. Leggiamo (da Gurdjieff e le donne della Cordata di William Patrick Patterson) cosa scriveva Janet Flanner - una studentessa a cui dobbiamo ottime descrizioni dell’insegnamento di Gurdjieff - quando il Maestro non c'era più: “La tristezza di cui soffro è così profonda che il fatto di essere in vita mi è praticamente insopportabile”. “Non ci sarà più nessun cambiamento … Sarò per sempre sveglia, con lo sguardo fisso, scioccata, in lacrime. Non solo non ho più fede nel futuro, ma ormai il passato mi ha raggiunto e con esso il fatto che non posso più sfuggirgli.”

Ecco invece Margaret Anderson (autrice de L’inconoscibile Gurdjieff) nel 1967: “La mia vita è stata così meravigliosa che preferisco porvi fine anziché vivere in modo mediocre. Oggi la mia esistenza non serve a niente, nessuno ha bisogno della mia devozione. La mia morte in questo frangente è a propos”. “Gurdjieff – un vero miracolo – ci ha suggerito che si può vivere al di fuori dell’umana follia e impotenza. Cos’è avvenuto di quel miracolo? Si è trasformato in un ricordo.”

Fritz Peters ha scritto su Gurdjieff due apprezzati libri. La sua vita successivamente alla morte del Maestro fu piena di rabbia, gelosia, malattie di nervi e alcolismo. Era anche il nipote di Margaret Anderson, con la quale non andava d’accordo e a cui scriveva lettere astiose.

Solita Solano fu segretaria di Gurdjieff e i suoi appunti costituiscono una miniera di spunti per gli studenti di Quarta Via. Prima di morire, nel 1975, cominciò a bere smodatamente e secondo Margaret Anderson "era resa quasi folle dai suoi nervi"; ogni sera il suo chiacchiericcio era "isterico".

Kathryn Hulme, che ha raccontato le sue esperienze con Gurdjieff in un'autobiografia, morì nel 1981, non senza aver prima scritto: “La mia vita è tetra da quando ogni comunicazione con le amiche Solita, Margaret e Janet si è interrotta. Gurdjieff ci aveva avvertito: «Provo pietà per voi. Quando non potrete più sedere alla mia tavola, soffrirete tantissimo…»”.

C’è un filo conduttore nelle ultime deprimenti confessioni di queste persone. Nessuna menziona mai il ricordo di sé, la necessità di fare sforzi per dividere l’attenzione sempre e dovunque. Esistevano gruppi di persone che cercavano di portare avanti il Lavoro di Gurdjieff, ma come aveva scritto Kathryn Hulme, “Com’era possibile affiliarsi a uno di quei gruppi dopo aver bevuto alla Sorgente?”.

Purtroppo il Lavoro non procede per inerzia. Se in passato si è avuto accesso a stati elevati di coscienza, questo non garantisce che lo stesso avverrà in futuro, soprattutto se non si fanno sforzi. Come ha detto uno di coloro che, per ragioni cronologiche, hanno dovuto Lavorare lontano da Gurdjieff: “Chiunque può perdere il Lavoro, basta smettere di fare sforzi”.

O voi che avete l'intelletti sani,
mirate la dottrina che s'asconde
sotto 'l velame de li versi strani.

martedì 10 marzo 2015

La trasformazione della sofferenza



Può la lettura di un libro del fondatore della "Terza scuola di psicoterapia viennese" tornare utile al Lavoro di uno studente di Quarta Via?

La risposta è "Certamente sì", se l'autore è lo psicologo viennese Viktor Frankl e il libro Uno psicologo nel lager.

In sintesi, il libro racconta la lotta di un uomo cui "fu sottratta ogni cosa tranne la nuda esistenza" per dare ancora un senso alla vita. Frankl fu internato ad Auschwitz e in altri lager; moglie, padre, madre e fratello vi furono uccisi; soffrì quotidianamente fame, freddo e brutalità; attese la morte ora dopo ora, eppure trovò "un perché per vivere che lo aiutò a sopportare ogni come".

Dostojewski ha scritto: "Temo una cosa sola: di non essere degno del mio tormento". Frankl è sopravvissuto al campo di concentramento perché ha fatto l'unica cosa che ancora poteva fare: "sopportare il dolore con dirittura". "All'uomo nel lager si può prendere tutto, eccetto una cosa sola: l'ultima libertà umana di affrontare spiritualmente la situazione imposta."

Quello che Viktor Frankl ha fatto, in Quarta Via si chiama "trasformazione della sofferenza". A lui è venuta così bene da aver suscitato e attratto l'energia non solo per sopravvivere al lager, ma anche per diventare, successivamente, psicoterapeuta di fama mondiale.

"Una difficilissima situazione esterna dà all'uomo lo slancio necessario per superarsi interiormente": e cosa ha fatto lo psicologo viennese per superare l'immane sofferenza del lager? Come ha "vinto interiormente", per usare la sua espressione?

Operando in modo strategico e molto concreto, perché "la vita ... non è qualcosa di vago, ma di volta in volta qualcosa di concreto". Gettando le basi della sua futura psicologia logoterapica, Frankl vedeva e descriveva "da un superiore punto di vista scientifico" tutto ciò che lo tormentava, "obbiettivandolo". In tal modo riusciva a porsi "al di sopra della situazione". In altre parole, "distillava all'impersonale" le sue esperienze, "decantando teorie oggettive" dal nucleo del vissuto soggettivo.

In Quarta Via ciò si chiama trasferirsi nelle "parti intellettuali dei centri", perché lì (in particolare nella parte intellettuale del centro emozionale) è il solo punto da cui un uomo può trascendere se stesso, separandosi da ciò che gli sta avvenendo. Parte di questo processo consiste nell'uso e sviluppo di un linguaggio che faciliti l'osservazione distaccata di se stessi: cosa che Frankl fece anche nel campo di concentramento. 

Altri Maestri avrebbero usato forse differenti vie. Osho avrebbe probabilmente parlato di "sviluppare il testimone interiore"; ieri (6 marzo) sul profilo Facebook di Thich Nhat Hahn è apparso il seguente "aggiornamento di stato": "Non prendere rifugio in niente di astratto. Prendi rifugio in qualcosa di molto concreto: la tua inspirazione". Il messaggio è di una praticità tale che sarebbe piaciuto a Viktor Frankl. Il respiro è sempre alla nostra portata, così come la divina Presenza o il testimone interiore.

A chi gli chiedeva "Qual è il significato della vita?", Frankl rispondeva: "Non si può rispondere, perché è come chiedere a un giocatore di scacchi quale sia la mossa migliore". Non esiste una sola risposta, giacché il significato della vita dipende dal momento, così come la migliore mossa scacchistica dipende dalla situazione del gioco. A volte, il senso della vita sta in un certo modo di guardare, a volte di camminare, altre volte di respirare, altre volte ancora di essere

Ho cominciato questo articolo parlando di studenti di Quarta Via. In realtà, non conosco nessuno a cui questo libro non avrebbe molto da insegnare. Il messaggio è sempre lo stesso, ma sorprende ogni volta: "Dio scrive dritto usando righe storte".

O voi che avete l'intelletti sani,
mirate la dottrina che s'asconde
sotto 'l velame de li versi strani.


lunedì 9 marzo 2015

I lunedì della poesia - Tu cammini


Tu cammini ovvero recuperi
il tempo perso della tua vita
Raggiungi l’orto fuori le mura
e ti riappropri d’un giorno, più in là
il mare vale un mese e il bosco
rorido di pioggia, un anno intero

Passi attenti come lenta cura:
“Ecco che contemplando metto in riga
il passato, l’informe prende forma”
Gli anni trascorsi, privi di sostanza
camminando acquistano spessore
Toccano il presente e lo sciolgono

Niente è scontato, neanche attraversare
un campo, ogni stelo uno sfavillio
L’osservi e non riesci più a camminare
- Uno sguardo ci vuole, morbido
che assottigli il peso del viaggio
Di tutto assorba solo l’energia

Mari e fiumi, pioggia e sole
Occhi così passivi che le immagini
restano a galla, non vanno a fondo
“C'è una legge dietro ogni distrazione”
Pensi di ciò che ammicca ai lati
Tumultuoso chiama l'attenzione

Di tappa in tappa si fa più pieno
il presente, il passato è dissolto
Viene assorbito, adesso è
un gabbiano che ti taglia la strada
Scia di beatitudine, nessuna
distrazione: tu vedi, non guardi

O voi che avete l'intelletti sani,
mirate la dottrina che s'asconde
sotto 'l velame de li versi strani

domenica 8 marzo 2015

Un nuovo museo



Il mio lavoro consiste nel vigilare la bellezza. Letteralmente. Questa settimana ho preso servizio in un nuovo museo. Anche se è chiuso per lavori, le opere che occhieggiano dagli scatoloni o da sotto i teli ricordano che è uno dei venti musei più importanti d'Italia.  

Che una cosa sia “bella” vuol dire semplicemente che può fungere da supporto alla Presenza. Questo vale anche per gli alimenti: non per niente "sapienza" e "sapore" hanno la stessa radice. Un alimento povero come la pizza, a esempio, è difficile che evochi la presenza: un povero raramente ha di mira la creazione di stati sottili dell'essere. D'altra parte, i ricchi tendono a circondarsi di cose belle e fatte con cura perché intorno a esse avvertono - magari usando altre espressioni - più Presenza, ovvero più energia. L'approssimazione è sonno. 

Un uomo che non vede la bellezza non ha creato un legame tra i suoi centri superiori e inferiori. E vedere la bellezza vuol dire amarla.”  Maurice Nicoll

Vigilare la bellezza vuol dire amarla insieme ad altre persone, proteggere un tempio. In vari modi questo lavoro può ricordare il Sistema. Uno è attraverso l'invisibilità: chi custodisce la bellezza mettendola a disposizione degli altri non deve dare nell'occhio. "Se stai ricordando te stesso senza che gli altri se ne accorgano, vuol dire che lo stai facendo con successo", è un detto di Quarta Via. Un altro modo è tramite l'atto del controllare, che riporta alla mente il "controllo delle passioni". Per la precisione, controllare le passioni non vuol dire essere senza passioni, bensì fare della verità una passione. Osho diceva: "La vera fonte della tua energia è il cuore".

In definitiva, l'essenza - il miracolo - dell'arte è che un momento Presente dell'artista diventa il momento Presente di un'altra persona. Anche a secoli di distanza. 

O voi che avete l'intelletti sani,
mirate la dottrina che s'asconde
sotto 'l velame de li versi strani.