mercoledì 7 gennaio 2015

Il ricordo di sé


Vi racconterò qualcosa che è capitato a tavola con il signor Gurdjieff. Eravamo tutti seduti, quando lui si è voltato e mi ha chiesto: "Lei capisce che cos'è il ricordo di sé?". Gli ho risposto: "Forse non lo capisco". "Ah!", fece il signor Gurdjieff. "Lo ripeta affinché gli altri possano udire." Ho ripetuto: "Forse non lo capisco". Gurdjieff ha detto: "Da oggi, tu sei mio fratello".
 (George Adie)

Quando ho ricordato a un amico questo aneddoto, lui ha commentato: "Io so cosa sia. Ci sono tante cose che ignoro, ma il ricordo di sé lo conosco".
In un certo senso, è vero. Dopo anni di sforzi per ricordare se stessi "sempre e dovunque", uno comincia a sapere che cosa è il ricordo di sé, per così dire ne conosce il sapore. Eppure, trovo che sia preferibile continuare a dire di non sapere che cosa sia, riconoscendo che è infinito e inesauribile.


Proprio ieri camminavo chiedendomi se io so che cos'è il ricordo di sé. Avevo cominciato a rispondermi - "Un cuore acceso", "Tutto più intenso", "Il lubrificante della mia macchina" -, quando un uomo mi è passato davanti e ha detto, prima e dopo una pausa di silenzio (il fatto che io l'abbia sentito è un miracolo):

"QUESTO NON LO SO".


Effettivamente.
Ciò che è bello, io non so cosa sia.
Ciò che è infinito, non lo posso capire.
Però so due cose. La prima, che in risposta a tutto ciò posso provare gratitudine: gratitudine perché in me c'è la possibilità di andare oltre me stesso.
La seconda: che le persone, quando ricordano se stesse, sono più belle, perché sembrano avere la pace nel cuore.
E tanto basta (o meglio: "Enough for today", come diceva sempre qualcuno alla fine dei suoi discorsi).


Lume non è, se non vien dal sereno
che non si turba mai

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