Vi racconterò qualcosa che è capitato a tavola con il signor Gurdjieff.
Eravamo tutti seduti, quando lui si è voltato e mi ha chiesto: "Lei
capisce che cos'è il ricordo di sé?". Gli ho risposto: "Forse non lo
capisco". "Ah!", fece il signor Gurdjieff. "Lo ripeta
affinché gli altri possano udire." Ho ripetuto: "Forse non lo
capisco". Gurdjieff ha detto: "Da oggi, tu sei mio fratello".
(George Adie)
Quando ho ricordato a un amico
questo aneddoto, lui ha commentato: "Io so cosa sia. Ci sono tante cose
che ignoro, ma il ricordo di sé lo conosco".
In un certo senso, è vero. Dopo
anni di sforzi per ricordare se stessi "sempre e dovunque", uno
comincia a sapere che cosa è il ricordo di sé, per così dire ne conosce il sapore. Eppure, trovo che sia preferibile
continuare a dire di non sapere che cosa sia, riconoscendo che è infinito e
inesauribile.
Proprio ieri camminavo chiedendomi se io so che cos'è il ricordo di sé. Avevo cominciato a rispondermi - "Un cuore acceso", "Tutto più intenso", "Il lubrificante della mia macchina" -, quando un uomo mi è passato davanti e ha detto, prima e dopo una pausa di silenzio (il fatto che io l'abbia sentito è un miracolo):
"QUESTO NON
LO SO".
Effettivamente.
Ciò che è bello, io non so cosa
sia.
Ciò che è infinito, non lo posso
capire.
Però so due cose. La prima, che in
risposta a tutto ciò posso provare gratitudine: gratitudine perché in me c'è la
possibilità di andare oltre me stesso.
La seconda: che le persone, quando ricordano se stesse, sono più belle, perché sembrano avere la pace nel cuore.
E tanto basta (o meglio: "Enough for today", come diceva sempre qualcuno alla fine dei suoi discorsi).
Lume non è, se non vien dal sereno
che non si turba mai
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