venerdì 30 gennaio 2015

La fontana delle tartarughe


Le strade migliori per arrivare alla fontana delle tartarughe sono Via dei Funari e Via di Sant’Ambrogio. Venendo da esse, si vedrà la fontana sullo sfondo di case antiche e si darà la schiena all'unico palazzone di fine Ottocento che incombe sulla piazza, schiacciandola.

Per qualunque via si acceda alla Piazza Mattei, comunque, l’attenzione sarà velocemente attratta dalla cinquecentesca fontana centrale. Essa, opera d’arte notissima (ne esiste una replica al centro di San Francisco), verrà qui trattata dal punto di vista degli insegnamenti della Quarta Via.

Il suo aspetto attuale risale ai tempi del Bernini, ovvero alla seconda metà del Seicento: quanto vediamo sarebbe dunque il frutto di un processo durato cento anni. 

Quattro efebi, mentre tengono sotto controllo altrettanti delfini, spingono in alto delle tartarughe, permettendo loro di abbeverarsi. L’acqua esce, in basso, dalla bocca dei delfini; in alto, dallo zampillo di una vasca a cui si abbeverano le tartarughe. L’aspetto dei delfini è ferino e selvaggio.

Delfini e tartarughe sono animali dalle caratteristiche opposte: veloci e istintivi gli uni, lente e pacate le altre. I primi possono simboleggiare la parte istintivo-animale dell’uomo; le seconde, quella spirituale-contemplativa. Quando vediamo gli emblemi rinascimentali del delfino con un'ancora o della tartaruga con una vela, sempre con il motto Festina lente ("Affrettati con lentezza"), siamo di fronte alla medesima congiunzione degli opposti. L’allegoria della fontana diventa allora: tenendo sotto controllo la parte animale in noi, permettiamo ai nostri centri superiori di nutrirsi.


Recentemente, nel Tempio Malatestiano di Rimini mi sono imbattuto in un altorilievo contemporaneo in cui la stessa idea è declinata al passivo. Qui gli animali opposti sono l'orso e la colomba. In basso vediamo l'orso domato; in alto la colomba che, rassicurata dalla docilità dell'orso, plana sulla mano della santa. Il nutrimento superiore è qui inteso come grazia che scende dall'alto, previo addomesticamento della parte ferina che potrebbe divorarla. Tutto ciò che la protagonista, non a caso una donna (Santa Colomba), deve ora fare è aspettare e ricevere. A Roma, invece, l'efebo rinascimentale controlla la parte ferina e allo stesso tempo spinge la tartaruga verso l'alto.

"Con l'animale interiore bisogna sempre lottare. Ma è anche necessario restarci amici, perché senza il suo aiuto è impossibile raggiungere lo scopo dell'insegnamento: creare un'anima." (Gurdjieff)

Le tartarughe bevono un liquido, l'acqua, prodotto dai delfini: ciò che esce dai centri inferiori è il carburante di quelli superiori. Nel Sistema si dice che il ricordo di sé è la sola cosa che non venga mangiata: al contrario, esso “deve mangiare le emozioni negative” (prodotte dal sé inferiore).

Osserviamo che la fontana non mostra un solo efebo, ma quattro. Siamo di fronte a un processo non solitario, ma collettivo e comunitario.

Gli efebi, come spesso accade, hanno un aspetto sereno e sembrano danzare. Il controllo dei centri inferiori (e il nutrimento di quelli superiori) avviene in modo giocoso, senza serietà né identificazione.

È noto che nei secoli le tartarughe sono state più volte trafugate e recuperate (o sostituite). I centri superiori sono la nostra parte più vulnerabile: come appaiono, così possono scomparire. Occorre esercitare una vigilanza costante.

Lume non è, se non vien dal sereno
che non si turba mai

giovedì 29 gennaio 2015

Sì, danzare



Quando balliamo, c’è un’altra danza che avviene all’interno del corpo: il respiro. Esso accende emozioni diverse, suscita movimenti nuovi e aggiunge grazia a ciò che stiamo facendo.

Il respiro è un moto dentro a un moto, il ritmo di un altro ritmo: percepire il respiro mentre danziamo è come stare allo stesso tempo in due mondi, scindersi osservando dimensioni parallele. Il risultato non è la schizofrenia, ma un misterioso afflusso di energia.

Questo guardare simultaneamente due oggetti diversi è stato chiamato nella Quarta Via "dividere l'attenzione".

Dividendo l’attenzione, la propria anima è presente.

L’attenzione va e viene; non dura, ma appare a sprazzi. Quando c’è, illumina il corpo ora in un punto ora in un altro: accentua quel movimento, rende più sciolto quell'altro, ci sorprende inventandone uno nuovo. Anche l’attenzione, col suo andare e venire, è un ritmo, una danza nel nostro corpo.

Semplicemente esserci, semplicemente muoversi: due cose che danno sempre una gioia inspiegabile.

Avvertiamo che dentro di noi, mentre facciamo qualcosa, sta avvenendo qualcos’altro. Se danziamo, altre forme di danza sorgono invisibili: portandoci l’attenzione esse sostengono la prima danza, altrimenti si disseccano e anche la danza originaria, quella del corpo, senza respiro né consapevolezza si inaridisce.

Danzare sempre meglio è essere sempre più attenti agli amici invisibili – respiro e consapevolezza – che si materializzano accanto a noi e ci tendono la mano per essere nostri compagni. Col respiro e la consapevolezza, fili d’oro, danziamo in compagnia, siamo sostenuti e offriamo sostegno. Essi ci lanciano in alto, ci spingono ad andare avanti e fanno arrivare la danza alla sua meta: la gioia condivisa.

Lume non è, se non vien dal sereno
che non si turba mai 

mercoledì 28 gennaio 2015

Amando Tarkovskji



Bisogna attraversare l’acqua con la candela accesa” (Nostalghia, 1984)

Tanto tempo, tanta vita ci vogliono per iniziare a capire Nostalghia di Tarkovsky.

La traversata dell’acqua è possibile solo mentre la vasca viene pulita, quando i relitti del fondale sono portati alla luce e rimossi. Una volta portata la fiamma sull’altra sponda, il nostro compito è finito.

L’acqua “calda e fumante” può essere la vita su questo pianeta; la candela che non si deve spegnere, l’anima; il passaggio del fuoco sull'acqua, l'incarnazione in un ambiente ostile che potrebbe ghermirci in un attimo. Pulire la vasca vuol dire allora diventare consapevoli di noi stessi e dei nostri fantasmi (i rifiuti), mentre la morte del protagonista simboleggia il compimento del nostro ruolo.

Come le migliori esperienze della vita (l’amore, la creatività, la presenza, la meditazione – ma sono poi diverse?), la visione di film del genere dovrebbe avvenire in compagnia, essere un’emozione condivisa.

Le lunghe scene in cui non accade niente chiamano alla contemplazione, e la contemplazione è uno stato d’animo che più è condiviso, più si approfondisce.

Tarkovsky negava che nei suoi film vi fossero simboli e metafore: non è vero, ma proviamo a essere felici come voleva lui. Lasciamo che all’orizzonte baluginino significati di cui non saremo mai certi, vediamo le cose come se ci apparissero per la prima volta e scorgiamo negli eventi altrettante occasioni per nutrire il nostro sguardo emozionato.

Accontentiamoci di guardare. Alla fine, la TV o il cinema hanno questo di buono: che sono dei quadrati che focalizzano l’attenzione, e l'attenzione concentrata (non affascinata) può essere un primo passo verso uno stato più elevato. 

"È il tempo che dedichi alla tua rosa che la rende così preziosa." (Il Piccolo Principe)

Nostalghia è un supporto per la contemplazione attiva, un luogo d’incontro tra il mondo e l'anima: tanto ci basta per dare un senso elevato al film.


Lume non è, se non vien dal sereno
che non si turba mai

martedì 27 gennaio 2015

Guardare l'arte con arte: appunti dai Musei Civici di Piacenza

Le persone sono rivelate dalle mani. Una santa e un'imperatrice che sta per diventare santa. Forse i più belli tra gli arti, perché sono i primi ad arrivare all'altra persona. Le nostre mani sono un dono dell'amato, degli amici – i genitori ce le donano due volte: prima fisicamente, poi travasandovi amore. Non abbiamo fino in fondo le nostre mani prima che da esse cominci ad arrivare anima. Mani più complete sono ciò che ci ritorna dall'amore e dalle opere: alla fine della vita ci vengono composte al petto a suggellare ogni cosa. Dopo tutto, non sono loro le prime a raggiungere la meta che ci siamo dati, aprendoci la strada? Il nostro punto più alto, lo raggiungiamo grazie alle mani.


Nella messa del Trecento la gente si accalcava intorno all'altare, non c'era distinzione netta clero/laici.




Dalla mano di Gesù esce letteralmente un fluido diretto all'ostia, che è nel nostro piano, mentre Gesù si trova al di là
Tanti esseri ti stanno facendo posto in questo momento. Sono morti affinché tu ora potessi esistere. Molte volte senti un’inspiegabile gioia in petto: è probabilmente l’altruismo di tante creature invisibili che si travasa in te. Anche tu, sacrificandoti per qualcuno che non conosci, andrai a comporre, insieme a tanti altri, le sue gioie inspiegabili. Senza coloro che verranno dopo di te, esisti solo a metà. Sei parte di chi ti ha preceduto.


Lume non è, se non vien dal sereno
che non si turba mai




lunedì 26 gennaio 2015

I lunedì della poesia - Pianura Padana



Ode alla Pianura Padana

Ferma la Ford, scendi qui, in mezzo al Nulla
Non c’è abbraccio più essenziale
Di questa linea intorno a te continua
Neanche un ostacolo, valle del Po
Campagna poderosa, porta il cielo
Solo il cielo in ogni sua piega

Per ore viaggi e sei il centro
D’un cerchio che resta uguale, immobile
Che ti ha scelto come smagliatura
Sola emersione, il granello forse
Che crea la perla e altri incidenti
Disastro splendido, il pelo nell’uovo

Poi prosegui, un fiume e qualche albero
Ecco, sei giunto al cuore del Vuoto
Magnifico, che mai può abbandonarti
L'orecchio di dio, grande verso il cielo
Questa è la meta, il Nulla che ti osserva
Ricca e aperta melagrana – abbracciala

Lume non è, se non vien dal sereno
che non si turba mai

domenica 25 gennaio 2015

Lo sforzo giusto



Lo sforzo giusto è gioia.

In alcuni ambienti spirituali si ha un'idea molto negativa di esso, come del controllo. Sono invece due cose bellissime. Permettono di sentire e accrescere l'energia. Le impediscono di diventare identificata, come sarebbe naturale. Senza sforzo né controllo, non possiamo fare l'esperienza dell'energia pura. 

Nella vita, lo scopo è ottenere il massimo risultato con il minimo sforzo. Nel Lavoro, può essere più utile ottenere il minimo risultato con il massimo sforzo. La via del Lavoro è all’indietro e a testa in giù rispetto alla vita.

Un esempio è fare sforzi non necessari per la vita. Nel libro “I racconti di Bogoljub” di Marko Rupnik (ogni tanto si viene ancora sorpresi da opere e autori di cui nessuno ti ha parlato), si legge di un monaco che improvvisamente capisce di dover fare qualcosa di eccezionale per scuotersi da pensieri ossessivi: nel suo caso, il supersforzo consiste in una passeggiata in montagna, ore e ore sotto la neve, pregando incessantemente sul modello di San Paolo (un supersforzo simile è stato descritto da Gurdjieff nei Frammenti). Quando uno è in un momento difficile, può uscirne dandosi esercizi difficili per sviluppare la propria forza. Un esercizio classico è non parlare di un eventuale attrito che si sta vivendo.

Le circostanze del momento presente non sono solo le migliori possibili per il nostro Lavoro: sono proprio ciò di cui abbiamo bisogno. “Se non stai lavorando con la difficoltà del momento presente, non stai lavorando nel modo giusto”, diceva Ouspensky. Le persone che abbiamo accanto sono esattamente ciò di cui abbiamo bisogno per evolvere: rappresentano un dono delle Forze Superiori.

Come ha scritto un insegnante di yoga, Gianni Da Re Lombardi: “Il piacere di mangiare un gelato è momentaneo; quello di non mangiarlo dura tutta la vita”.

Lume non è, se non vien dal sereno
che non si turba mai 

giovedì 22 gennaio 2015

L'inizio di Marco Aurelio



I Pensieri di Marco Aurelio sono un’opera atipica, per non dire unica, nel panorama letterario dell’antichità. Il loro incipit, ovvero il primo libro, è a sua volta sorprendente: una stranezza nella stranezza.

In questo primo libro Marco Aurelio elenca tutte le persone importanti della sua vita, ringraziandole per quanto di buono gli hanno dato: “Da mia madre, il sentimento religioso, l’altruismo… Da mio padre, la modestia e il carattere virile…”, e così via per sedici personaggi più gli dèi.

Lo stile è solenne, grazie all’elisione del verbo “ho ricevuto”, che conferisce al primo capitolo un’essenzialità epigrafica.

Questo mettere per iscritto tutte le persone che ci hanno dato qualcosa di buono, riconoscendole e ringraziandole, è un procedimento che ha avuto un certo seguito, ma forse nessun precedente.

Oggi, in certi rami della psicologia, è prassi comune. Anche a me è capitato più volte di ricevere carta e penna da uno psicologo o un conduttore di “gruppi di crescita”, per scrivere le cose positive che avevo preso da genitori, parenti, amici ecc. È una bella pratica: sviluppa la gratitudine, distoglie l’attenzione da se stessi e allo stesso tempo ci permette di conoscerci meglio.

Quando però lo faceva Marco Aurelio, intorno al 170 d.C., sembra che nessuno ci avesse già pensato. Spulciando un po’ la bibliografia al riguardo, viene fuori che all’epoca i modelli più vicini al primo libro marcoaureliano fossero i testamenti, i cataloghi, gli inventari o addirittura le formule delle quietanze: tutte cose ovviamente molto distanti dallo spirito di questa opera.

Anche se tanta letteratura antica non ci è pervenuta, allo stato attuale delle conoscenze sembra che il primo libro dei Pensieri marcoaureliani sia stato un colpo di genio che ha anticipato di millenni pratiche della psicologia moderna, come il “diario della gratitudine” e la cosiddetta “psicologia positiva”.

Oggi, quando sui social network veniamo invitati ad attività tra il serio e lo scherzoso tipo “Scrivi tre cose al giorno per cui ti senti grato”, sappiamo che sotto sotto c’è un po’ di Marco Aurelio.

Adatta te stesso alle cose a cui la sorte ti ha assegnato. E ama, ma veramente, gli uomini coi quali il destino ti ha unito.”

Lume non è, se non vien dal sereno
che non si turba mai

Simposio



C’era una cosa strana a cui non avevi mai fatto caso: l’uomo antico si faceva seppellire con i suoi calici e le sue anfore. A pensarci bene, chi si farebbe tumulare con i propri bicchieri, oggi?

Una sera ti capitò di partecipare a un simposio sul modello degli Antichi e in mente ti balenò una spiegazione diversa da quella ufficiale, secondo cui quelle suppellettili dovevano contenere offerte per l’Oltretomba.

Alla luce delle torce, sotto le stelle del solstizio, con i calici pieni e guidati da una “fiammeggiante” simposiarca che orientava la conversazione sull’Amore, ti venne in mente che per l’anima degli Antichi il simposio doveva essere un momento di particolare importanza, tanto che ci si faceva seppellire con il suo corredo: un po’ come oggi si va sotto terra con croci o rosari.

Arduo è fare discorsi da Simposio durante un simposio: intensa doveva essere l’attenzione degli Antichi, notevole il loro sforzo per essere più forti del vino e ragionare a lungo d’Amore. Il risultato era forse un pezzetto d’anima, qualcosa che si pensava potesse seguirci nell’aldilà.

Mentre uno ricorda se stesso, sta nel contempo creando il proprio sé, il proprio corpo astrale.”

L’atto stesso del parlare era delicato, perché facilmente le parole velavano la Presenza. Tra vino, cibo e parole il simposio appariva una buona palestra per il ricordo di sé, dunque per l’anima.

Tanto più difficili le circostanze della vita, tanto più produttivo il Lavoro – sempre che ti ricordi il Lavoro”.

La terrazza in cui vi trovavate era uno spazio creato da voi con amore e dedizione, non un luogo altrui preso a prestito. Anche questo aveva la sua importanza. Ognuno dovrebbe essere costruttore del proprio tempio e solo di tanto di tanto vivere di rendita negli spazi altrui. L’amore con cui stavate creando quella casa e quel terrazzo vi sosteneva e spingeva più in alto. Per mano tenevi non solo gli  studenti della Quarta Via – gli amanti di Gurdjieff, di Rumi, di Hafiz – ma anche Aristodemo, Aristofane e Socrate. Tante cose che avevi fatto sino a quel momento, te ne accorgevi, altro non erano che un pagamento per essere su quel terrazzo, quella sera.

L’antichità è ora e sempre, il Presente era anche allora.  

Lume non è, se non vien dal sereno
che non si turba mai

martedì 20 gennaio 2015

Acqua dalla roccia



Alcuni dicono che con la morte non si possono fare le prove. Forse però basta andare da soli a qualche evento commerciale o in certi mall e questo diventerà possibile. Netta sarà la sensazione di trovarsi dentro un ingranaggio, con tanto di ruote dentate, che ci starà stritolando, oppure nella bocca di un mostro che si nutre di anime. Fondamentale sarà essere soli, senza la distrazione di amici o parenti. Allora non si potrà che cercare di aprirsi e abbracciare il tutto, ovvero “fare le prove con la morte”.

Mi è capitato recentemente di trovarmi, di notte, a un evento del genere che richiamava grandi folle. Estrarre presenza da quella situazione mi è sembrato come cavare acqua da una roccia. Ma il bello è che anche nelle rocce c’è acqua: lo dimostra Mosè, che l’ha fatta sgorgare picchiando con il bastone.

In qualsiasi situazione, può mancare solo ciò che tu non hai dato” (Un corso in miracoli).

La via del Lavoro è all’indietro e a testa in giù rispetto alla vita, dice Gurdjieff. Cercare acqua nella roccia è un movimento opposto alla corrente ordinaria della vita. A esempio, mantenere il cuore morbido e aperto in certi posti e con certe musiche può essere un modo di rendere più porosa la roccia che a volte abbiamo nel petto.

Importante è sempre, comunque, verificare l’atteggiamento verso gli altri. Se mi sembra di essere in uno stato elevato, ma poi riconosco ancora in me una condanna verso quanti mi circondano, posso sicuramente fare di meglio. Uno stato elevato deve accogliere tutta l’umanità che mi sta intorno. Non può escluderla, tantomeno essere accompagnato da ostilità nei suoi confronti.

I tibetani hanno una bella espressione per indicare la morte: “L’unione della madre con il figlio”. E come si possono unire, madre e figlio, se non abbracciandosi?

Lume non è, se non vien dal sereno
che non si turba mai

Le parole di Osho



Qualche post fa ho accennato ai libri di Osho.

È noto che essi sono la trascrizione dei suoi discorsi pubblici (tranne uno, che raccoglie le sue lettere).

Voglio qui offrire le mie personali “Istruzioni per l’uso”.

Quando Osho parlava di non-sforzo, non-fare, lasciarsi andare ecc., aveva davanti a sé uomini e donne che avevano rivoluzionato la propria vita per stare il più vicino possibile a lui: alcuni lavoravano gratis dieci ore al giorno, altri avevano rinunciato alla carriera, tutti per diversi anni dovevano vestire di rosso e portare una foto di lui al collo. A persone che erano arrivate a tali livelli di sforzo e di pagamenti, Osho diceva “Lasciatevi andare”; non si rivolgeva a generici lettori comodamente seduti sulla poltrona di casa.

Il Maestro di Pune sosteneva che cose meravigliose nascono ogni qualvolta si congiungono gli opposti, e dunque invitava ad abbandonarsi con metodo, sforzarsi in modo rilassato e innamorarsi in piena coscienza: “Cammina senza piedi, vola senza ali e pensa senza mente.”

Per due ore circa, tutti i giorni, i suoi ascoltatori restavano seduti immobili davanti a lui. È in quello sforzo supremo che venivano gettati i semi del non-sforzo. Oggi quei discorsi sono diventati in qualche caso libri di successo, ma tutti sono frutto del rapporto Maestro/discepolo. Non sarebbero esistiti se qualcuno avesse semplicemente messo in mano a Osho un microfono, nel chiuso della sua stanza.

Fino a pochi anni fa, davanti alla sua casa indiana c’erano ancora i cigni che tanto amava. Essi scivolavano con grazia e apparentemente senza fatica sull’acqua, ma a guardare bene le loro zampe si muovevano incessantemente: un invisibile sforzo che rendeva possibile ogni cosa. 

Lume non è, se non vien dal sereno
che non si turba mai

domenica 18 gennaio 2015

I lunedì della poesia - Sole



Poiché in te
      c’è più silenzio,
lo sai:
il sole ti sta parlando,
dice che vuole te,
    la tua intimità –
lì è la sua anima gemella

E non importa
     se sei un maschio –
in te hai l’anima che il sole
desidera, desidera
ancora
               desidera

Con i suoi tempi –
che sono milioni di anni

Si distende piano su di te,
      senti,
il sole –
tutta la pelle è arrossata,
canta

È allora che l’anima
diventa corpo,
   erompe,
fa sbocciare ogni liquido alla superficie

E tu sai:
milioni e milioni di anni –
    questi sono i tempi
                                 del sole


Lume non è, se non vien dal sereno
che non si turba mai

Venticinque anni fa



Domani sarà un quarto di secolo da quando Osho ha lasciato il corpo. Non esagero se dico che ventuno anni fa (un numero per lui importante) egli mi ha salvato la vita.
Il suo primo testo apparve in italiano lo stesso anno della mia nascita. Forse tra me e i suoi libri italiani esiste un legame particolare :-)

Per celebrare, ecco il video di una festa con Osho, che resterà visibile solo oggi.

Lume non è, se non vien dal sereno
che non si turba mai


giovedì 15 gennaio 2015

La Grande Bellezza



C’è un racconto di Gogol che si intitola Roma. Alla fine di esso, sul Gianicolo e mentre il cannone spara, il protagonista si perde nella contemplazione di Roma e “dimentica se stesso e il mondo intero”.

Il film La Grande Bellezza sembra cominciare laddove Roma di Gogol finisce. Sullo stesso punto del Gianicolo e subito dopo il cannone di mezzogiorno, un giapponese ammira il panorama di Roma e ha un mancamento, forse addirittura muore.

Alla fine del film, invece, il protagonista Jep Gambardella si apre alla grande bellezza e rinasce. Tutto quello che è avvenuto nel frattempo sembra essere ciò che gli ha permesso di vedere la bellezza senza dimenticare né perdere se stesso. In questo senso, il film diventa un percorso di formazione e l’inizio e la fine si saldano, diventando parti di una spirale che ritorna allo stesso punto di partenza, ma a un livello più alto.

Più volte è stato detto che La Grande Bellezza si rifà alla Dolce Vita. C’è una differenza: al termine della Dolce Vita, Marcello resta sulla spiaggia del mostro e non riesce a sentire la voce dell’«angelo rinascimentale» che lo chiama dall’altra sponda; al termine della Grande Bellezza, Jep sente il richiamo della santa che ha ospitato a casa sua, si apre alla grande bellezza e come per incanto i diecimila uccelli (i diecimila io) che hanno nidificato sul suo terrazzo si dissolvono.

La santa “conosce il nome di battesimo di tutti quegli uccelli” – conosce gli io – ma tace, al contrario di un’altra figura religiosa, alla stessa tavola, che parla sempre: “Perché la povertà (= l’assenza degli io) si vive, non si racconta”.

La giraffa che scompare nelle Terme di Caracalla “è un trucco”, come il ricordo di sé che fa svanire gli io. “Fa’ sparire anche me”, chiede Jep al mago della giraffa. Osho definì esplicitamente la meditazione “un trucco”; Gurdjieff disse che per un uomo è impossibile capire il ricordo di sé.

Nelle ultime scene, Jep si riconcilia con il proprio passato e torna a scrivere dopo molti anni; la santa sale in ginocchio la Scala di S. Giovanni, perché “Quando raggiungi la vetta della montagna, bisogna continuare a salire” (detto Zen).

Lume non è, se non vien dal sereno
che non si turba mai

mercoledì 14 gennaio 2015

Guardando l’aldilà con Battiato



C’è una cosa davvero bella nell’ultimo libro-DVD di Franco Battiato, Attraversando il Bardo, Sguardi sull’Aldilà: nella confezione sono indicati vari tipi di sottotitoli, ma nel DVD non ve n’è traccia. Questo vuol dire che per un non udente, a esempio, il DVD è poco fruibile. Magari alla libreria confermano anche l’esistenza di un difetto, solo che l’acquirente ha buttato subito lo scontrino, quindi c’è poco da fare.

Le emozioni negative più infide sono il sentimento di ingiustizia e di indignazione. Se poi hanno un fondamento, sono ancora peggiori” – Ouspensky.

Ecco che per quell’ipotetico non udente si schiude la possibilità di lavorare concretamente con l’oggetto acquistato. Ora lui ha tante cose da cui separarsi: pensieri, emozioni, posture tese ecc. Alcune di queste cose sono “calde”, quindi staccarsi da esse è ancora più utile.

Come può essere pronta a morire una persona che sviene o dimentica ogni cosa se si mozza un dito?” – Gurdjieff

Vai a vedere che questo DVD non finisca con il realizzare il suo titolo, Sguardi sull’Aldilà, in modo imprevisto. Più che parole e teoria, esso potrebbe offrire pratica. Se così fosse, a quel non udente non sarebbe andata poi tanto male: lavorare sulla morte e il distacco usando un DVD anziché un dito mozzato. E sì: forse lo studente di Gurdjieff Franco Battiato ha fatto un dono – piccolo e inatteso – a un altro studente.

Lume non è, se non vien dal sereno
che non si turba mai

martedì 13 gennaio 2015

Fellini, Castaneda e il cibo


Da qualche tempo Rizzoli ci permette di fare la più indiscreta delle azioni: curiosare nel diario dei sogni di un altro. L’altro è Federico Fellini e i suoi privatissimi appunti onirici sono diventati Il Libro dei Sogni. Non conosco nessun’altra persona il cui diario dei sogni si sia trasformato in un libro di lusso.

Un personaggio che appare nei sogni felliniani con tratti semidivini, seppure una sola volta, è Carlos Castaneda.

Fellini lo inseguì quindici anni per trarre un film dai suoi libri. Quando però si recò in America per realizzare questo progetto, insieme allo scrittore Andrea de Carlo nelle vesti di sceneggiatore, si verificò una serie di eventi bizzarri. Per chi non conoscesse l’argomento, il viaggio è stato raccontato da Fellini sul Corriere della Sera e in un fumetto illustrato da Milo Manara, Viaggio a Tulum (qui un’ottima intervista al grande riminese sull’argomento); il punto di vista di Andrea de Carlo è nel romanzo Yucatan (qui una sua intervista); l’opinione di Carlos Castaneda su Fellini è nell’intervista da lui rilasciata a Cesare Medail; il sito di una delle donne che venne coinvolta a LA in questo rocambolesco viaggio è invece qui.

Si vede subito che la materia è aggrovigliata e probabilmente inestricabile. A me ricorda un koan Zen, ovvero “una domanda per cui non esiste risposta”.

Qui si metterà in luce una piccola coincidenza. Castaneda parla di Fellini esclusivamente dal punto di vista del cibo: ci dice che mangiava male, tanto da “spaventarlo”. Questo dettaglio di per sé non rivela nulla; il fatto è che nel libro di de Carlo (“vero al settanta per cento”) vediamo che i rapporti tra Castaneda e Fellini cominciano effettivamente a raffreddarsi durante una cena al ristorante, allorché Fellini esprime negatività sul cibo, il servizio, l’ambiente ecc.

Ho la sensazione che Fellini sia stato in qualche modo esaminato e bocciato da Castaneda, che ciò sia avvenuto a tavola e che la cosa abbia avuto conseguenze sul seguito del viaggio.

Il modo in cui stiamo a tavola e mangiamo non è un dettaglio trascurabile. Molte tradizioni spirituali sottolineano l’importanza di questo momento: chi sa controllarsi a tavola sa controllarsi anche in altre aree della vita. Senza andare troppo lontano nel tempo e nello spazio, ricordiamo che in italiano le “posate” si chiamano così perché vanno deposte tra un boccone e l’altro. Nella Quarta Via oggetto del presente blog, Gurdjieff (che secondo alcuni è stato molto letto e studiato da Castaneda) diceva a coloro che parlavano mentre mangiavano, che se Dio ci avesse dato due bocche, non c’era problema; ma siccome ce ne aveva data una sola, il mangiare doveva avvenire in silenzio. Diceva anche: “L’uomo non deve mangiare come un animale, ma consapevolmente” e “L’uomo che sa mangiare correttamente, sa anche pregare”. Modi diversi per dire la stessa cosa: bisogna mangiare con presenza.

Va da sé che in questa interpretazione si dà molto peso al poco che è stato detto da Castaneda, e poco al molto che è stato detto da altri. Sicuramente ci sono altri fattori: Fellini non eseguì gli esercizi che Castaneda gli aveva dato a Roma e questo può aver pesato sulleventuale “bocciatura”. Ma se tutta questa vicenda, come sembra, è un grande koan, non se ne verrà mai a capo. Ricavarne qualche lezione utile per il nostro presente sarebbe già tanto.

Lume non è, se non vien dal sereno
che non si turba mai


lunedì 12 gennaio 2015

Gli Amici giusti



Per un periodo ho fatto yoga da solo e ho fatto danni, perché mancava l’amore. L’amore può nascere solo quando ci stanno altre persone: fare pratiche spirituali con gli altri è protettivo.

Nel cammino spirituale la comunità non è un optional, qualcosa che ci può indifferentemente essere o non essere. Quanto possiamo fare da soli altro non è che una fase preparatoria, un’apertura al passaggio della Grazia che può avvenire unicamente in presenza di altri uomini. Se io sono presente, sono disponibile all’affiorare della Grazia, la quale però richiede la presenza di un’altra persona: l’Amico, l’Amata, il Maestro.

C’è un film piuttosto cerebrale, si chiama Il mare che pensa. Uno dei suoi temi è il danno che può fare una spiritualità solitaria e libresca. In esso vediamo un intellettuale che si chiude in casa con libri di Zen e di Nisagardatta, ruminadoli solitariamente e giungendo a trattare le singole pagine come feticci. Dimentica che quegli insegnamenti nacquero in un contesto relazionale: comunitario-monastico, come nello Zen, o maestro/discepolo, come Nisargadatta.

Gli Amici giusti sono quelli vicino ai quali ricordo me stesso con più facilità: il loro raccoglimento è tale che se li guardi, ti senti guardato pure se i loro occhi sono altrove. L’amico giusto è quello nel cui occhio puoi tuffarti a lungo e in modo sempre nuovo, scivolando fuori dal tempo anche se ti trovi in un Café affollato. L’Amico giusto, con la sua sola Presenza, porta alla luce il tuo cuore. 


Lume non è, se non vien dal sereno
che non si turba mai

domenica 11 gennaio 2015

I lunedì della poesia - Catena di Haiku



CATENA DI HAIKU

Accade che dove

il tuo respiro
   si posi proprio là
      nasca un fiore

E tu t'osservi
   da quel punto immediato
      così tenero

Seminatore
   di luci multiformi
      che aspettavano te

Un fiore proprio
   lì dove mille altri
      già si aprirono

Tutti gli uomini
   da Adamo in poi a catena
      videro un fiore

dove ora sei tu

Lume non è, se non vien dal sereno
che non si turba mai

sabato 10 gennaio 2015

I Santi Quattro


La chiesa e il monastero dei Santi Quattro sono una delle isole di Medioevo meglio conservate a Roma. La loro preservazione è dovuta al fatto che dal 1560 il complesso ospita ininterrottamente le monache agostiniane di clausura. Esso sembra uno scrigno di tesori, che però vanno cercati.

Sulla destra del secondo cortile vi è, senza alcuna indicazione, la Cappella di S. Silvestro (http://it.wikipedia.org/wiki/Oratorio_di_San_Silvestro_%28Roma%29), per la quale bisogna chiedere l’apertura (anni fa, attraverso una ruota di legno che odorava di minestra, veniva data la chiave; ora l’apertura è elettronica). Dentro c’è un ciclo di affreschi duecenteschi meritevole di visita.
Mi soffermo su una scena in particolare, la Donazione di Costantino, studiandola dal punto di vista degli insegnamenti della Quarta Via e tralasciando ogni altra chiave di lettura.

Il riquadro in oggetto raffigura un re (Costantino), appena guarito da una malattia, che cede parte del suo potere a colui (S. Silvestro) che l’ha guarito.
Mentre con una mano il re effettua questa rinuncia, con l’altra fa passare un bambino per una porta stretta, in groppa a un cavallo. Non si nota subito, ma quest’ultimo sta volando; guardando bene, si vede anche che le redini sono a forma di cuore.
Il re guarito tiene la testa all’altezza del petto di un giovane: tutte le pieghe dell’abito di quest’ultimo convergono sul volto di Costantino, quasi trasformandolo in un sole raggiante. Questo giovane sta cedendo un ombrello, simbolo di protezione, a ciò che ha operato la guarigione del re. Si osservi anche che il giovane è posto all’inizio di una schiera di sei uomini, l’ultimo dei quali è il più anziano.

Quando troviamo il cammino che ci guarisce dall’immaginazione, dalla “malattia del «domani»”, ci sentiamo rinvigoriti come se ci fossimo rimessi da una malattia. Realizzando che questo cammino non è gratis, rinunciamo a quanto alimenta l’immaginazione e facciamo “quel che a ciò non piace” (“ciò” è il sé inferiore, nel rudimentale inglese di Gurdjieff). Ecco allora che cominciamo ad arrestare le perdite energetiche e aumentare la nostra energia tramite il ricordo di sé: il cuore si accende e la sensazione è quella di tornare bambini, toccando il cielo con un dito. La porta di tutto ciò è stretta, perché poche cose possono attraversarla: i bagagli vanno lasciati fuori. Il nostro cuore dovrà volare, cioè pesare come una piuma, od Osiride non ci lascerà passare.
Un gruppo di sei persone, dalla più giovane alla più anziana, protegge il re redento e trasmette la propria protezione al nuovo principio guaritore, riconoscendolo più grande di sé.

È bello restare fermi davanti all’arte e lasciare che i suoi dettagli si rivelino, richiamando realtà ed esperienze interiori in un gioco di illuminazioni reciproche. Il processo richiede tempo, ma l’attenzione prolungata e l’assorbimento interiore ci faranno sentire, alla fine, come dopo un bagno di energia.

Fuori dal convento, il vento era forte: quello stesso vento che i Greci chiamavano anemos, "anima". Un nastro della polizia si era slegato e danzava con grandi curve per l’aria. Tu e i tuoi Amici passavate liberamente per la strada, senza che alcuna macchina si scorgesse all’orizzonte.

Lume non è, se non vien dal sereno
che non si turba mai

giovedì 8 gennaio 2015

Il chiostro


Ti è capitato di entrare nel chiostro in un momento in cui avevi l’occhio e il cuore aperti, quindi le impressioni sono ricadute con abbondanza dentro di te. Tutto potevi accogliere in quel momento, e ogni impressione che veniva a farti visita ti scioglieva ulteriormente.
Passeggiare in ognuno dei lati del chiostro era la cosa giusta da fare. È stato detto: «Tenetevi stretti alla corda di Allah», ma la corda di Allah è sottile, e più siamo chiusi e addormentati, meno riusciamo a scorgerla tra le cose che ci circondano. D’altra parte, più siamo nel momento, più ne scorgiamo gli indizi ovunque. La corda di Allah è a ogni istante una fune tesa sull’abisso, e vi devi camminare con attenzione.

In quel momento a ogni cosa potevi offrire la tua contemplazione. Quest’ultima era salda, non smarriva se stessa negli oggetti: restava intenzionale.

La contemplazione intenzionale è lo strumento principale per attirare le sostanze cosmiche più sacre” (Gurdjieff).

Le campane accompagnavano l’ultimo tratto della tua deambulazione. Forse, una volta, lo stesso tragitto veniva fatto da persone che avevano materialmente una corda in mano: il rosario. Tu hai avuto una corda invisibile, e ogni volta che finivi un lato, introducevi una variazione. Probabilmente anche gli uomini di un tempo scandivano le loro preghiere usando il chiostro: ogni lato un salmo, una litania, una “corda”. È possibile che il chiostro non fosse altro che un espediente per rendere più precisi i propri sforzi, e che tu abbia riscoperto una regola non scritta nei libri, ma che segretamente ha arricchito la vita di tanti uomini del passato.

Un raggio di luce si era aperto la strada tra le nubi e spazzava il tuo quadrato di cielo. La sua origine era oltre le pareti del convento, ma non importava. Il chiostro era un tuo alleato.

[Da domani, oshogurdjieff.blogspost.com santificherà il sabato, ovvero non ci saranno pubblicazioni in quel giorno della settimana.]

Lume non è, se non vien dal sereno
che non si turba mai