Nel 1931
Ouspensky introdusse un nuovo esercizio nei suoi gruppi inglesi, finalizzato a tenere concentrata l'attenzione e impedire le divagazioni mentali: la
ripetizione costante di una formula verbale, una preghiera o un'invocazione. Secondo lui, da
quando questa pratica era stata introdotta più di mille anni prima nei monasteri
ortodossi greci, migliaia di monaci e monache avevano raggiunto stati di
illuminazione.
Tra chi
lo ascoltava quel giorno, c’era John G. Bennett, che rimase tanto colpito dal
nuovo esercizio da farvi ricorso per dodici anni. Egli, per usare le sue parole, apprese a dire il Padre Nostro contemporaneamente in greco e
in latino; a impiegare velocità differenti; a ripeterla dentro di sé mentre
svolgeva altre attività intellettuali, tipo leggere o parlare; a unirla al
respiro. Riusciva a ripeterla fino a mille volte al giorno: essa era divenuta
la sua “ancora di salvezza e un grande sollievo”. Nel corso della guerra,
questa pratica “ebbe un effetto imprevisto, in quanto rimosse completamente la
paura della morte”: “Fintantoché ripetevo la preghiera del Signore, avevo la
convinzione di essere immune al pericolo”.
Questa ripetizione
incessante di una formula verbale si ispira alla nota esortazione
paolina “Pregate incessantemente”. Parlare a se stessi è sempre stato un valido
supporto per l’attenzione. È come un giocare d’anticipo con la mente: anziché
farci sopraffare dal suo usuale flusso di parole meccaniche,
siamo noi a darle delle frasi precise, indirizzandola verso la direzione
che vogliamo. Già Epitteto parlava dell'epileghein, ovvero dello "aggiungere alla situazione un discorso interiore". Nel suo caso si trattava di massime morali come "Non adoperarti perché gli avvenimenti seguano i tuoi desideri, ma desiderali così come avvengono", capaci di cambiare la disposizione dell'individuo.
Da quel lontano 1931 la ripetizione incessante di una formula
verbale fa parte - in un modo o nell'altro, ora più ora meno - della Quarta Via.
“Il pellegrino russo”, il libro più diffuso della spiritualità russa, è dedicato a questa
tecnica. Vi troviamo anche una metafora dell’attenzione divisa che mi piace ricordare, perché originale ed efficace. Qualcuno chiede a un insegnante spirituale: “Come faccio a
ripetere dentro di me la preghiera di Gesù anche mentre sto svolgendo un’attività
intellettuale, tipo parlare a un’altra persona?”. Risposta: “Immagina che
un severo ed esigente tiranno ti ordini di comporre un trattato in sua
presenza, proprio ai piedi del trono. Sebbene tu possa essere totalmente
assorto nel tuo lavoro, la presenza del re, che ha potere assoluto su di te e
che ha la tua vita in pugno, non ti permetterebbe per un singolo istante di
dimenticare che tu stai pensando, riflettendo e scrivendo non da solo, ma in un
luogo che richiede da te un particolare rispetto, venerazione e decoro. Questa fervida
consapevolezza della vicinanza del re esprime molto chiaramente la possibilità
di essere assorti nella preghiera interiore senza sosta anche durante un lavoro
intellettuale” (corsivo mio).
Con questa
pratica non ci sono circostanze migliori di altre, ovunque è il posto adatto
per “pregare incessantemente”. A quel punto, "gli affari vengono condotti con
grande decisione, nelle conversazioni con altre persone ci si attiene alla
brevità, in generale si tende al silenzio e non si è più inclini alle parole inutili". Essa sembra avere anche una funzione protettiva, come aveva intuito Bennett durante la seconda
guerra mondiale: “Tutti quei problemi ti sono stati evitati grazie … a quella
breve preghiera che ti permetteva di innalzare il tuo cuore, ogni giorno, in
unione con Dio”, era stato detto al pellegrino russo.
Personalmente, trovo questo aspetto della Quarta Via uno dei più pratici
e trasformativi, con l'avvertenza di ricordare che le parole non sono fini a se stesse: “Dio
non vuole le nostre parole, ma una mente attenta e un cuore puro”, giacché “la buona
parola è argento, ma il silenzio è d'oro”.
Ed elli a me: Questa montagna è tale,
che sempre al cominciar di sotto è grave;
e quant'om più va sù, e men fa male.
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