martedì 23 giugno 2015

Le parole dell'essere


Nel 1954 Louis Pauwels, a proposito dei suoi sforzi di ricordare se stesso, annotava: “Le idee non restavano a lungo immobili dentro di me, ma cominciavano ad assumere mille forme e a scorrere in ogni senso, come gli oggetti dipinti da Salvador Dalì”. Egli stava parlando dell'immaginazione, l'ostacolo numero uno alla presenza interiore. All'incirca negli stessi anni, Maurice Nicoll insegnava: “Lo scopo non può mai divenire meccanico … Va costantemente riaffermato, perché è come costruire una barriera vicino al mare”. Il carattere liquido e scivoloso dell’immaginazione si potrebbe esprimere oggi, più che con i quadri di Gaudì, con ciò che Google ha chiamato “Inceptionism”, la cosiddetta “attività onirica del computer”: essa si ha quando a un pc viene chiesto di trovare in un’immagine dettagli che richiamino altre immagini, amplificando poi tali associazioni fino a originare una figura del tutto diversa da quella di partenza.

Ma come costruire la diga contro il "mare" dell’immaginazione? Questa domanda è il cuore del Lavoro. Per qualcuno, essa equivale a chiedersi come avere una mente silenziosa. Forse all'inizio il punto non è tanto essere privi di parole, quanto fare in modo che queste ultime siano chiare e precise. Quando siamo in immaginazione, in noi abbondano le mezze parole e le frasi abortite: i famosi “pensieri troppo corti” che Ouspensky esortava a sostituire con pensieri lunghi. Avere vocaboli indefiniti e inconsapevoli dentro di sé equivale a essere nervosi e inquieti. E quali sono i “vocaboli esatti” che occorrerebbe pronunciare dentro di sé per avere un quadro interiore chiaro? Forse, le parole del momento presente. Esortare interiormente se stessi all'attività del momento presente, con parole brevi e nette, aiuta a eliminare quell’incessante brusio interiore che si chiama “immaginazione”, “sonno”, “morte dell’anima” ecc. Quando non si sta facendo niente di particolare, si può semplicemente esortare se stessi a “essere”: "Ricorda 'io sono', 'io sono'", diceva Gurdjieff. In tal modo, si può essere “contemporaneamente passivi all’esterno e attivi all’interno”, come si insegna in Quarta Via.

La differenza tra i vocaboli indistinti e le parole precise è quella che passa tra l’inconsapevolezza e la consapevolezza. Quando introduciamo le seconde, comincia ad apparire il famoso “maggiordomo” che fa ordine nella casa, in attesa che arrivi il vero padrone. Le persone che inseguono il silenzio mentale forse non soffrono perché sono piene di parole, ma perché queste ultime sono vaghe e confuse.

L’educazione a tale nettezza interiore può avvenire tramite una disciplina esteriore più volte consigliata dai Maestri di Quarta Via: “In ogni specifica situazione, occorre usare quante meno parole possibile”, diceva Ouspensky; e sua moglie: “Non fornire mai un numero di informazioni maggiore di quelle che ti sono state chieste”. Tenere a freno la lingua esterna aiuta a controllare quella interna e quindi, in definitiva, a impedire che nel nostro mondo interiore una nube si trasformi in un cane, uno scopo nel suo opposto e un’ottava ascendente in una discendente.

Ciò ch’io vedeva mi sembiava un riso
dell’universo; per che mia ebbrezza
intrava per l’udire e per lo viso. 

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