mercoledì 2 dicembre 2015

Lavoro finto, lavoro vero


Nell'estate 1924 Jessie Dwight, moglie di A.R. Orage, scrisse nel proprio diario: 

Per quanto potevo vedere (ma come potevo esserne sicura?), tutti [al Prieuré] lavoravano perché dovevano e lo facevano soltanto quando Gurdjieff era presente. Nessuno sembrava farlo perché ... era indispensabile al proprio sviluppo interiore, per uscire dalla routine, per costituire una riserva di energia, per andare oltre un'attività meccanica, oltre la fatica fisica, raggiungendo un altro piano di sforzo consapevole e, nel farlo, osservare obiettivamente se stessi.

Novantuno anni dopo, è facile che chi lavora in una comunità spirituale continui a riconoscersi in queste parole. L'idea è che "la cosa vera", the real thing, sia altrove: nell'ora di meditazione, nei momenti in cui si è con il maestro, in ciò che comunque si farà una volta finito di lavorare. A quel punto, esattamente come nella vita ordinaria, si lavora di malavoglia e solo perché ci si è costretti.

Per fortuna, questa situazione non è inevitabile. Intanto, la citazione di Jessie Dwight contiene un elenco tale delle motivazioni ideali del lavoro, da far sospettare che anche lei, nonostante tutto, avesse intravisto qualcosa. Inoltre, diverse fonti ci riportano un quadro migliore. È il caso a esempio di Fritz Peters, che nel suo primo libro gurdjieffiano racconta di una signora la quale "probabilmente aveva svolto un ottimo lavoro su di sé". Sin dal primo giorno, questa signora spiegò al giovane Peters che l'importante era lavorare con tutto il proprio essere e osservare se stessi. Questa signora colpì Peters per la grazia con cui lavorava: persino gli abiti erano eleganti (i due erano all'opera in giardino). Infatti, mentre tagliava una siepe, ella si era resa conto che l'autosservazione "rendeva armonioso, funzionale e quindi bello ogni movimento del proprio corpo".

All'inesperto Peters sembrava che in realtà le siepi tagliate da lei non fossero perfette, al che la signora gli spiegò che "quando il nostro sé o essere profondo si alimenta di ciò che stiamo facendo", non era importante nemmeno finire il lavoro. In altri termini, a Peters sfuggiva che "ciò che il Metodo fa ... non è altro che il completo e assoluto ribaltamento di tutto ciò che conta nella vita di un individuo" (G. Munson). Il fatto che il Prieuré fosse disseminato di progetti mai portati a termine cominciò quindi ad apparire una Peters sotto una nuova luce. Significativo appare anche il passo del libro di Tchechovitch, in cui Gurdjieff distrusse e rifece personalmente un lavoro ben eseguito, solo perché l'operaio (Tchechovitch stesso) si era vantato della propria bravura.

"Chi ha un obiettivo in mente, fa in modo che tutto sia utile per raggiungerlo", ha scritto Orage. Chi non ce l'ha, fa in modo che tutto sia inutile: anche lavorare al Prieurè.


Tratto t'ho qui con ingegno e con arte;

lo tuo piacere omai prendi per duce;
fuor se' de l'erte vie, fuor se' de l'arte.

Nessun commento:

Posta un commento